Le Storie della Bibbia

LE STORIE DELLA BIBBIA

venerdì 25 ottobre 2013

Un'analisi impietosa della politica italiana

Quest'articolo di Antonio Polito sul Corriere on-line di oggi, fotografa in modo impietoso lo stato delle cose politiche in Italia

 
Provate a seguire da vicino l’iter di un provvedimento legislativo. Scoprirete che i partiti che compongono la maggioranza non sono tre come si dice, ma almeno sette. Nel Pd agiscono separatamente il gruppo dei «Renzi for president» e l’avversa coalizione del «Tutto tranne Renzi»; più un manipolo di deputati che rispondono direttamente alla Cgil. Nel Pdl i «fittiani» contendono palmo a palmo il terreno agli «alfaniani», e il consenso del Pdl va contrattato con entrambi (più Brunetta). Scelta civica si è sciolta in due fazioni, per niente moderate nella foga con cui si combattono. Per condurre in porto il vostro provvedimento preferito dovrete dunque fare sette stazioni della via crucis parlamentare, per quattro volte (se il governo non mette la fiducia, due letture alla Camera e due al Senato). Vi servono insomma ventotto sì. Un’intesa larghissima: si fa prima al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Una volta approvata, la nuova norma rimanderà di sicuro a un regolamento attuativo. E lì ricomincerà la vostra gimkana, stavolta tra i burocrati dei ministeri che hanno il potere di scriverlo.
Il nostro sistema politico-parlamentare è letteralmente esploso. E la cosa incredibile è che il massimo della frammentazione convive con il massimo del leaderismo nei partiti. Il Pd, che pure è il più democratico, è una monarchia elettiva (quattro capi in cinque anni, l’unico partito al mondo che incorona il segretario con una consultazione del corpo elettorale). Il Pdl è una monarchia ereditaria. La terza forza, il M5S, è una diarchia orientale, con un profeta e un califfo.
In queste condizioni il semplice fatto che esista un governo è già un miracolo, figurarsi l’operatività. Se andiamo a votare può anche peggiorare. E non è solo colpa del Porcellum . Con i partiti come sono oggi, e con i sondaggi che circolano oggi, nessun sistema elettorale, nemmeno il più maggioritario, può garantire una maggioranza solida. Se anche questa si producesse nelle urne, si spaccherebbe in Parlamento un attimo dopo, come è miseramente accaduto alla più formidabile maggioranza della storia, quella uscita dal voto del 2008 e guidata da Berlusconi. Da tre anni il governo della Repubblica non è più espressione del risultato elettorale. Nessuna delle coalizioni che abbiamo trovato sulla scheda appena otto mesi fa esiste più.
Qualsiasi terapia del male italiano deve passare da qui: come rendere il Paese governabile. Come aprirsi un sentiero praticabile tra due Camere, venti Regioni, più di cento Province, più di ottomila Comuni. Come ridurre il numero dei partiti, ridurne il potere, ridurne l’ingerenza. È infatti nel sistema politico-istituzionale che si è incistata nella sua forma più perniciosa quella crisi di cultura e di valori di cui hanno scritto sul Corriere Galli della Loggia e Ostellino.
La soluzione viene di solito indicata nelle riforme costituzionali. Solo chi spera nel tanto peggio tanto meglio può negarne l’urgenza. Ma neanche quelle basteranno se non si produce una profonda rigenerazione morale dei partiti. Laddove l’aggettivo «morale» non sta solo nel «non rubare», e il sostantivo «rigenerazione» non coincide con l’ennesimo «repulisti» affidato al codice penale: questo sistema politico è figlio di Mani pulite, e non sembra venuto tanto meglio.
Rigenerazione morale vuol dire innanzitutto una nuova generazione, homines novi . Vuol dire restaurare un nesso, anche labile, tra l’attività politica e il bene comune. Vuol dire liberarsi dei demagoghi e dei voltagabbana. L’Italia non può farcela senza una politica migliore.
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ANTONIO POLITO25 ottobre 2013 | 08:29© RIPRODUZIONE RISERVATA
 

domenica 20 ottobre 2013

Pessimismo della ragione


Questo articolo di Galli della Loggia pubblicato oggi 20 ottobre 2013 su Corriere on-line, rispecchia ciò che Gramsci definiva il “pessimismo della ragione”. Il pessimismo è da un po' di tempo la cifra delle analisi di Galli della Loggia. Per uscire da una situazione come la nostra attuale, che appare ineluttabile, Gramsci suggeriva “l'ottimismo della volontà”. La domanda che mi pongo è la seguente: si coltiva ancora nella società italiana “l'ottimismo della volontà”? Io non saprei rispondere.


Il potere vuoto di un paese fermo
Il fallimento di una classe dirigente

L’Italia non sta precipitando nell’abisso. Più semplicemente si sta perdendo, sta lentamente disfacendosi. Parole forti: ma quali altre si possono usare per intendere come realmente stanno le cose? E soprattutto che la routine in cui sembriamo adagiati ci sta uccidendo?

Sopraggiunta dopo anni e anni di paralisi, la crisi è lo specchio di tutti i nostri errori passati così come delle nostre debolezze e incapacità presenti. Siamo abituati a pensare che essa sia essenzialmente una crisi economica, ma non è così. L’economia è l’aspetto più evidente ma solo perché è quello più facilmente misurabile. In realtà si tratta di qualcosa di più vasto e profondo. Dalla giustizia all’istruzione, alla burocrazia, sono principalmente tutte le nostre istituzioni che appaiono arcaiche, organizzate per favorire soprattutto chi ci lavora e non i cittadini, estranee al criterio del merito: dominate da lobby sindacali o da cricche interne, dall’anzianità, dal formalismo, dalla tortuosità demenziale delle procedure, dalla demagogia che in realtà copre l’interesse personale.

Del sistema politico è inutile dire perché ormai è stato già detto tutto mille volte. I risultati complessivi si vedono. Tutte le reti del Paese (autostrade, porti, aeroporti, telecomunicazioni, acquedotti) sono logorate e insufficienti quando non cadono a pezzi. Come cade a pezzi tutto il nostro sistema culturale: dalle biblioteche ai musei ai siti archeologici. Siamo ai vertici di quasi tutte le classifiche negative europee: della pressione fiscale, dell’evasione delle tasse, dell’abbandono scolastico, del numero dei detenuti in attesa di giudizio, della durata dei processi così come della durata delle pratiche per fare qualunque cosa. E naturalmente ormai rassegnati all’idea che le cose non possano che andare così, visto che nessuno ormai più neppure ci prova a farle andare diversamente. Anche il tessuto unitario del Paese si va progressivamente logorando, eroso da un regionalismo suicida che ha mancato tutte le promesse e accresciuto tutte le spese.

Mai come oggi il Nord e il Sud appaiono come due Nazioniimmensamente lontane. Entrambe abitate perlopiù da anziani: parti separate di un’Italia dove in pratica sta cessando di esistere anche qualunque mobilità sociale; dove circa un terzo dei nati dopo gli anni ‘80 ha visto peggiorare la propria condizione lavorativa rispetto a quella del proprio padre. Quale futuro può esserci per un Paese così? Popolato da moltissimi anziani e da pochi giovani incolti senza prospettive?
Certo, in tutto questo c’entra la politica, i politici, eccome. Una volta tanto, però, bisognerà pur parlare di che cosa è stato, e di che cosa è, il capitalismo italiano. Di coloro che negli ultimi vent’anni hanno avuto nelle proprie mani le sorti dell’industria e della finanza del Paese. Quale capacità imprenditoriale, che coraggio nell’innovare, che fiuto per gli investimenti, hanno in complesso mostrato di possedere? La risposta sta nel numero delle fabbriche comprate dagli stranieri, dei settori produttivi dai quali siamo stati virtualmente espulsi a opera della concorrenza internazionale, nel numero delle aziende pubbliche che i suddetti hanno acquistato dallo Stato, perlopiù a prezzo di saldo, e che sotto la loro illuminata guida hanno condotto al disastro. Naturalmente senza mai rimetterci un soldo del proprio. Né meglio si può dire delle banche: organismi che invece di essere un volano per l’economia nazionale si rivelano ogni giorno di più una palla al piede: troppo spesso territorio di caccia per dirigenti vegliardi, professionalmente incapaci, mai sazi di emolumenti vertiginosi, troppo spesso collusi con il sottobosco politico e pronti a dare quattrini solo agli amici degli amici .

Questa è l’Italia di oggi. Un Paese la cui cosiddetta società civile è immersa nella modernità di facciata dei suoi 161 telefoni cellulari ogni cento abitanti, ma che naturalmente non legge un libro neppure a spararle (neanche un italiano su due ne legge uno all’anno), e detiene il record europeo delle ore passate ogni giorno davanti alla televisione (poco meno di 4 a testa, assicurano le statistiche). Di tutte queste cose insieme è fatta la nostra crisi. E di tutte queste cose si nutre lo scoraggiamento generale che guadagna sempre più terreno, il sentimento di sfiducia che oggi risuona in innumerevoli conversazioni di ogni tipo, nei più minuti commenti quotidiani e tra gli interlocutori più diversi. Mentre comincia a serpeggiare sempre più insistente l’idea che per l’Italia non ci sia più speranza. Mentre sempre più si diffonde una singolare sensazione: che ormai siamo arrivati al termine di una corsa cominciata tanto tempo fa tra mille speranze, ma che adesso sta finendo nel nulla: quasi la conferma - per i più pessimisti (o i più consapevoli) - di una nostra segreta incapacità di reggere sulla distanza alle prove della storia. E in un certo senso è proprio così.

L’Italia è davvero a una prova storica. Lo è dal 1991-1994, quando cominciò la paralisi che doveva preludere al nostro declino. Essa è ancora bloccata a quel triennio fatale: allorché finì non già la Prima Repubblica ma la nazione del Novecento: con i suoi partiti, le sue culture politiche originali e la Costituzione che ne era il riassunto, allorché finì la nazione della modernizzazione/industrializzazione da ultimi arrivati, la nazione del pervadente statalismo. Ma da allora nessuno è riuscito a immaginare quale altra potesse prenderne il posto.
Ecco a che cosa dovrebbe servire quella classe dirigente che tanto drammaticamente ci manca: a immaginare una simile realtà. A ripensare l’Italia, dal momento che la nostra crisi è nella sua essenza una crisi d’identità. Da vent’anni non riusciamo a trovare una formula politica, non siamo capaci d’azione e di decisione, perché in un senso profondo non sappiamo più chi siamo, che cosa sia l’Italia. Non sappiamo come il nostro passato si leghi al presente e come esso possa legarsi positivamente ad un futuro.

Non sappiamo se l’Italia serva ancora a qualcosa, oltre a dare il nome a una nazionale di calcio e a pagare gli interessi del debito pubblico. Abbiamo dunque bisogno di una classe dirigente che - messa da parte la favola bella della fine degli Stati nazionali e l’alibi europeista, che negli ultimi vent’anni è perlopiù servito solo a riempire il vuoto ideale e l’inettitudine politica di tanti - si compenetri della necessità di un nuovo inizio. Ripensi un ruolo per questo Paese fissando obiettivi, stabilendo priorità e regole nuove: diverse, assai diverse dal passato. Mai come oggi, infatti, abbiamo bisogno di segni coraggiosi di discontinuità, di scommesse audaci sul cambiamento, di gesti di mutamento radicale.

Mai come oggi, cioè, abbiamo bisogno proprio di quei segni e di quelle scommesse che però, - al di là della personale intelligenza o inclinazione stilistica di questo o quel suo esponente - dai governi delle «larghe intese» non siamo riusciti ad avere. Governi simili funzionano solo in due casi, infatti: o quando c’è un obiettivo supremo su cui non si discute, in attesa di raggiungere il quale lo scontro politico è sospeso: come quando si tratta di combattere e vincere una guerra; ovvero quando tutte le parti, nessuna delle quali ha prevalso alle elezioni, giudicano più conveniente, anziché andare nuovamente alle urne, accordarsi sulla base di un accurato elenco di reciproche concessioni per sospendere le ostilità e governare insieme. Ma nessuno di questi due casi è quello dell’Italia: dove sia il conflitto interno al Pd e al Pdl che quello tra entrambi è ancora e sempre indomabile, e costituisce il tratto politico assolutamente dominante. La ragione delle «larghe intese» ha così finito per divenire, qui da noi, unicamente quella puramente estrinseca che si governa insieme perché nessuno ha vinto le elezioni, e per varie ragioni non se ne vogliono fare di nuove a breve scadenza.
Certo, due anni fa, quando tutto ebbe inizio con il governo Monti, le intenzioni del presidente della Repubblica miravano, e tuttora mirano, a ben altro. Ma dopo due anni di esperimento è giocoforza ammettere che quelle intenzioni, sebbene abbiano conseguito risultati importanti sul piano del contenimento dei danni, appaiono ben lontane dal divenire quella realtà di cui l’Italia ha bisogno.

Con le «larghe intese», sfortunatamente, non si diminuisce il debito, non si raddoppia la Salerno-Reggio Calabria, non si diminuiscono né le tasse né la spesa pubblica, non si elimina la camorra dal traffico dei rifiuti, non si fanno pagare le tasse universitarie ai figli dei ricchi, non si fa ripartire l’economia, non si separano le carriere dei magistrati, non si costruiscono le carceri, non si aboliscono le Province, non si introduce la meritocrazia nei mille luoghi dove è necessario, non si disbosca la foresta delle leggi, non si cancellano le incrostazioni oligarchiche in tutto l’apparato statale e parastatale; e, come è sotto gli occhi di tutti, anche con le «larghe intese» chissà quando si riuscirà a varare una nuova legge elettorale, seppure ci si riuscirà mai. Si tira a campare, con le «larghe intese», questo sì: ma a forza di tirare a campare alla fine si può anche morire .

lunedì 14 ottobre 2013

La faziosità gioca brutti scherzi

“Alla Leopolda Renzi voleva l’amnistia”
Ma quella proposta era tutt’altra cosa

LAPRESSE
 
 
Il bersaniano Di Traglia punzecchia il rottamatore. Quel provvedimento
riguardava la corruzione, prevedeva la confessione del reato e l’addio alla politica
Per descrivere il clima di divisioni - quando non vere antipatie - che persistono oggi nel Pd, può essere interessante raccontare un episodio, piccolo ma rivelatore. Ieri mattina, ospite in tv di Alessandra Sardoni a Omnibus, lo storico portavoce di Bersani Stefano Di Traglia ha ricordato che l’amnistia «era nelle cento proposte finali della Leopolda 2011», prevista «per politici corrotti a determinate condizioni». La discussione è poi andata avanti su altro, con questa pulce nell’orecchio dei telespettatori: Renzi era pro amnistia.

Per capire se le cose stanno davvero così bisogna incrociare un po’ di fonti scritte del 2011, oltre ai ricordi orali. Al punto 13 della Leopolda, a proposito di giustizia, si parla in effetti di amnistia; ma è un’amnistia «condizionata», e poi riguarda nella sostanza i reati di corruzione della classe politica. Le condizioni sono cinque: se il responsabile del reato «confessa il reato; menziona tutti i complici coinvolti; restituisce il maltolto; si ritira dalla vita politica», può essere amnistiato. Altrimenti, il beneficio non vale.

Si tratta di una «amnistia» diversa da quella su cui ha espresso dubbi Renzi, cioè l’amnistia alla quale ha fatto riferimento l’altro giorno il Presidente della Repubblica, citandola nel contesto del problema del sovraffollamento delle carceri, e non legandola affatto (anzi, rispondendo sdegnato a chi la legava) al problema della corruzione di qualche leader politico da amnistiare. Insomma, l’amnistia che era nelle proposte della Leopolda c’entra poco con l’amnistia dell’ultima polemica.

Ci sono tuttavia altri dettagli interessanti che emergono se si fa un po’ di archeologia di questa querelle. Il primo è che Leopolda era concepito come un cantiere aperto (un «work in progress», o un lavoro «wiki», si disse con qualche enfasi). Non un programma, ma una serie di idee aperte a tutti da cui estrarre poi quelle da presentare agli elettori. Il secondo è che il tema amnistia entrò nelle proposte della Leopolda perché appassionava Luigi Zingales, economista, in seguito avvicinatosi a Fare per fermare il declino (prima dello scandalo del falso master di Giannino). Zingales sosteneva che quella misura andasse introdotta assieme ad altre che favorissero una maggior meritocrazia nella mentalità pubblica italiana. E Renzi? Dalle fonti a disposizione non escono fuori sue affermazioni dirette pro amnistia. E qui si viene al terzo punto, che ci riporta all’inizio: al clima di divisioni dentro il Pd di oggi.

Quando Zingales alla Leopolda estrasse l’argomento «amnistia» (sia pure nella forma di cui s’è detto) bastò la sola espressione per far saltar su mezzo Pd. Nico Stumpo, il responsabile della macchina, s’incaricò di domandare: «Ho letto le proposte di Renzi. Vorrei capire bene il punto tredici dove si parla di amnistia per i corrotti». Renzi, che come si sa ha la battuta facile, sulla materia è invece sempre stato cauto e più che riflessivo.

Tra parentesi, quando ad agosto s’iniziò a parlare di un’amnistia per il sovraffollamento delle carceri (l’idea Cancellieri), col sospetto che favorisse il Cavaliere, il Pd fu tutto contro. Anzi, sdegnato. Parlò per la segreteria Davide Zoggia: «Sarebbe un’indecenza». Insomma, occhio: è un po’ come se ognuno si facesse la sua «amnistia», e la usasse poi polemicamente contro i nemici. Del suo partito, ovvio. 

mercoledì 9 ottobre 2013

Nostalgia

Si avvicinano le date dei congressi del PD per l'elezione del segretario e degli altri organi direttivi.  Quelli per l'elezione del segretario provinciale e del segretario della città capoluogo si svolgeranno domenica 27 ottobre. Anche a Brescia si nota un po' di movimento fra coloro che saranno chiamati all'elezione, vale a dire gli iscritti, anche se parlare di entusiasmo mi sembrerebbe un po' esagerato. Per il provinciale sarebbero in corsa tre concorrenti: il segretario uscente Bisinella, e due nuovi: Orlando e Vivenzi. Tutti e tre hanno esperienza amministrativa essendo tre sindaci di altrettanti paesi della provincia. Per la città invece non ci sarebbero concorrenti e il superbono De Martin si accingerebbe a sacrificarsi di nuovo per il bene del PD. Il capoluogo  è veramente a corto di classe dirigente di partito, tutti sono sistemati nelle più comode poltroncine delle istituzioni.
Quindi gli iscritti al PD, almeno in questi congressi locali, sono chiamati ad esprimere una scelta e volendo anche a partecipare a qualche discussione. Senonché voci circolate in rete sembrerebbe che nemmeno questo sia riservato agli iscritti, perché i tre concorrenti provinciali, ispirati dai "vertici" regionali, potrebbero accordarsi fra di loro su un'unica candidatura. Con buona pace delle belle intenzioni di rinnovamento, di partecipazione, di democrazia  ecc. ecc. In questo PD fanno tutto i Vertici, alla fine resteranno solo loro. Infatti a che serve iscriversi al PD, in un partito dove si conta come i cani nell'associazione della protezione animali? Non si meraviglino poi  i Vertici se anche alle elezioni, vigente il comodissimo Porcellum, il PD verrà abbandonato pure dagli elettori.
Spero che non accada. Lo sanno tutti che nel PD ad ogni livello ci sono lacerazioni, rivalità, linee politiche assai diverse, è bene che vengano alla luce , è giusto che gli iscritti abbiano un qualche peso nella scelta dei dirigenti, è ora che ci sia anche un rinnovamento generazionale, è tempo che si faccia chiarezza sul  progetto con il quale  il PD intende proporsi agli italiani per ottenere la maggioranza dei loro voti e governare l'Italia. I congressi servono a questo e non per celebrare unitarie e  funeste liturgie di commiato.