Le Storie della Bibbia

LE STORIE DELLA BIBBIA

sabato 14 dicembre 2013

L'talia che manifesta

 
Oggi a Roma c'è stata una manifestazione di protesta dei tre sindacati confederali, guidata dai loro segretari nazionali, davanti a Palazzo Chigi. La manifestazione serviva a protestare contro la legge di Stabilità che non ha accolto le loro proposte. Vale a dire: meno tasse per i lavoratori e per i pensionati. Una ricetta semplice e di sicuro gradimento. Così si sono lamentati di non essere stati ricevuti da nessun ministro  del governo.  Soprattutto se la prendono con il ministro Saccomanni, a detta loro, il peggiore di tutti. Il ministro del tesoro è quello che tiene i cordoni della borsa, la quale purtroppo è vuota. Nella stessa giornata, come nei giorni scorsi è continuata anche la protesta dei forconi, anch'essi si lamentano per le tasse. Così che, con  tutto il disordine e tutto il disagio provocato dalle manifestazioni dei forconi in tutta Italia, i quali hanno occupato le piazze d'Italia con numerose e talvolta violente adesioni di persone di ogni tipo e di ogni risma, (resta ferma la mia convinzione che questo movimento è politicamente di destra, eversivo e con attive frange fasciste) la misera protesta dei sindacati nella piazza davanti a palazzo Chigi, è sembrata essere un segno della scarsa considerazione che essi godono, sia presso il governo e soprattutto presso i lavoratori stessi.
I tre leader: Camusso, Bonanni e Angeletti, avranno sicuramente esposto le loro critiche e le loro ricette economiche, se non risolutive, certamente degne di attenzione, tuttavia se ne sono guardati  bene dal fare qualche esame di coscienza, dal fare qualche autocritica sui loro comportamenti negli anni appena trascorsi. Sembra che non si rendano conto di non rappresentare più la totalità dei lavoratori. Stando a quel poco che si conosce dei loro iscritti, se si escludono i pensionati, che sono più della metà in ciascuno dei tre sindacati, e se si escludono  i pubblici dipendenti, i quali hanno comunque sempre il posto garantito, il resto dei lavoratori iscritti saranno forse tre o quattro milioni. Insomma tutti gli altri: i non sindacalizzati, gli autonomi, i precari, i lavoratori in nero ecc. che sono la grande maggioranza di quel che ancora c'è del mondo del lavoro, sono altrove. Inoltre non pare nemmeno che i tre siano sfiorati dal sospetto che anche nel sindacato, sia ai vertici che nei ranghi della sua inossidabile burocrazia, ci sia bisogno di qualche rinnovamento e di aria nuova, soprattutto di un profondo ripensamento anche culturale e politico del ruolo del sindacato nella società italiana di oggi.
Lo statuto dei lavoratori votato dal Parlamento  nel 1970, alla fine di una lunga stagione di lotte, ha rappresentato un punto di maturazione e di conquiste sindacali sicuramente  di grande portata. Le condizioni politiche e sindacali che hanno consentito quel successo, oggi non ci sono più. Allora il lavoro dipendente era la quasi totalità del mondo del lavoro. Le lotte dei lavoratori trainate dalle tre organizzazioni erano supportate anche politicamente in Parlamento, sia dall'opposizione rappresentata dal PCI, che dai partiti di governo, la DC e il PSI. Infatti lo Statuto porta la firma di un ministro socialista. Da allora tuttavia la società italiana, il mondo del lavoro in particolare, si è enormemente trasformata. Oggi la rappresentanza sindacale e la rappresentanza politica si  è frantumata in molte organizzazioni, con caratteristiche le più diverse: corporative, geografiche, clientelari, di destra e di sinistra, spontaneiste e qualunquiste, europeiste e antieuropee, i partiti tradizionali sono scomparsi, i nuovi stentano ad imporsi, tanto che gli italiani che non votano sono sempre più numerosi.
Stando così le cose anche le tre confederazioni sindacali non potevano non entrare in crisi. Prima l'affrontano la loro crisi meglio sarà anche per i lavoratori che ancora credono nel sindacato.
 
 


venerdì 13 dicembre 2013

L’impervia strada di Matteo

L'articolo di Ricolfi è apparso oggi su La Stampa on-line, mi sembra una onesta considerazione su Matteo Renzi esui compiti che l'attendono come segretario del PD.

L’impervia strada di Matteo (di Luca Ricolfi - La Stampa)

Che Renzi abbia vinto le primarie del Pd e ne sia diventato il segretario è un fatto positivo. Renzi, infatti, è l’unico leader dal quale è ragionevole aspettarsi due risultati: primo, la fine della stagione immobilista del governo Letta, finora colpevolmente tollerata da Pd e Pdl; secondo, la rinuncia a percorrere scorciatoie anti-istituzionali, che sono invece la perenne tentazione di Berlusconi, Grillo e Lega, ossia di circa metà del Parlamento.

Questo è importante, perché ci toglie dal dilemma di questi otto mesi: meglio tenersi il timido Letta, o rischiare il ritorno alle urne senza una nuova offerta politica? Con Renzi chi vuole un vero cambiamento sa che potrebbe anche ottenerlo, perché il ragazzo è determinato. Ma sa anche che, se il cambiamento non si materializza, si può andare alle urne senza porcellum, e con qualche proposta politica nuova.

 Fin qui tutto bene. Questa è la faccia migliore della luna. C’è anche una seconda faccia, tuttavia, e tanto vale parlarne subito: non è detto che Renzi abbia coraggio a sufficienza. E se Renzi si rivelasse un bluff, la luna della politica potrebbe riservarci il suo lato peggiore. Con effetti catastrofici, temo.

Vediamo perché.

Per capirlo occorre partire da due recentissime prese di posizione pubbliche, due specie di lettere aperte rivolte l’una a Enrico Letta (a firma Giavazzi e Alesina, sul Corriere della Sera), l’altra a Matteo Renzi (a firma Pietro Ichino, dal suo sito). L’elemento comune a questi due interventi è il perentorio, o accorato, invito a uscire dal generico. La richiesta di rispondere su una quindicina di punti fondamentali, su cui non solo il governo ma anche Renzi non hanno preso posizioni chiare o, nel caso di Letta, hanno fatto annunci senza passare dal dire al fare.

Il tratto distintivo dei punti toccati da Alesina, Giavazzi e Ichino, tuttavia, è la loro prosaicità. Pochi voli pindarici sull’obbrobrio del porcellum, sugli scandalosi stipendi dei manager, sulla politica ladra e corrotta, sulla necessità di «dare una speranza», ma una ben più corposa lista di decisioni da assumere sul deficit pubblico, sull’entità dei tagli di spesa, sulle assunzioni nella scuola, sulle imprese pubbliche decotte, sulle privatizzazioni, sul finanziamento pubblico dei partiti, sulla giustizia, sul mercato del lavoro (inclusa l’incandescente disciplina dei licenziamenti). Quasi tutti punti su cui non solo il prudente Letta ma anche lo scanzonato Renzi hanno finora detto ben poco, o per lo meno ben poco di preciso nei modi, nei tempi e nelle cifre.

Il perché della reticenza di Letta è chiaro. Democristianità a parte, è soprattutto l’assenza di un accordo programmatico ben definito (come quello Merkel-socialdemocratici) che lo costringe a prendere «impegni vaghi», un atteggiamento che giustamente Alesina e Giavazzi considerano una colpa, in quanto danneggia il paese. Il perché della reticenza di Renzi lo spiega benissimo Pietro Ichino quando nota (e dimostra) che il Pd «è il più conservatore fra i partiti italiani». Questa circostanza spiega perfettamente la metamorfosi di Renzi: audace e tutto sommato abbastanza chiaro fin che doveva sfidare Bersani (primarie dell’anno scorso), è diventato sempre più guardingo, sfuggente e astuto quando, in questi ultimi mesi, gli si è presentata la possibilità reale di conquistare la cittadella del Pd, l’unico vero apparato di partito rimasto sul terreno di gioco. Renzi sa benissimo che, in qualsiasi sede, incontro, festival o grigliata democratica, Susanna Camusso prende più applausi di Pietro Ichino, e a questo dato di fatto ha deciso di attenersi, mettendo la sordina su tutti i temi, dal mercato del lavoro al rispetto degli elettori di Berlusconi, che lo avevano reso indigeribile al popolo di sinistra. Una strategia comunicativa perseguita con coerenza e lucidità, e ingenuamente confessata da quello che pare essere divenuto il principale consulente di Renzi in materia economico-sociale, Yoram Gutgeld, di cui è appena uscito il libro-manifesto Più uguali, più ricchi (Rizzoli). Nelle pagine iniziali del libro, Gutgeld esalta l’equità e la meritocrazia (che creano sviluppo economico), e critica l’eguaglianza e l’egualitarismo (che frenano lo sviluppo), salvo poi spiegare che non se l’è sentita di intitolare il libro «Più equi, più ricchi», perché la parola «equità» e ancor più l’aggettivo «equo» sono termini «freddi». Meglio il titolo «Più uguali, più ricchi», che alimenta l’equivoco, fa credere l’esatto contrario di quel che si vuol dire, ma almeno scalda i cuori degli elettori di sinistra.

Ha fatto bene Renzi ad adottare una simile strategia di «dissimulazione onesta»?

Chi crede fermamente in lui, giura di sì. L’importante era ed è vincere, e per vincere le prossime elezioni bisognava dare al popolo quel che il popolo chiede: tanta polemica anti-casta, tanta voglia di facce nuove, tanta retorica del ricambio generazionale, il tutto condito con un pizzico di polemica con l’Europa e i suoi vincoli paralizzanti. Un ragionamento che, a quel che sento in giro, coinvolge anche i più riformisti fra i renziani: per fare le cose che Matteo predica, bisogna prima conquistare il Pd e il Governo, e solo poi preoccuparsi dei contenuti più difficili da far accettare all’elettorato di sinistra, e presumibilmente anche al resto del paese.

Questo ordine di pensieri, più o meno spregiudicati e machiavellici, sono certamente congeniali a una parte dell’elettorato di sinistra, e specialmente alla sua parte più anziana, spesso di matrice comunista, da sempre abituata alla doppia verità e convinta che il fine, quando è buono, giustifichi i mezzi, anche quelli cattivi. Ma proprio il fatto che la cultura comunista, le sue abitudini mentali, i suoi riflessi condizionati, siano ancora così radicati nell’elettorato di sinistra, dovrebbe forse suggerire anche un diverso genere di riflessione. Se Renzi, come pensano i suoi detrattori, ambisce solo a sedersi sullo scranno di palazzo Chigi, nessun problema: potrebbe anche farcela. Se però, come molti di noi si augurano, il Davide della politica italiana, dopo aver vinto il gigante Golia dell’apparato di partito, nutrisse anche l’ambizione di provarci, a cambiare questo sciagurato paese, forse farebbe bene a non trascurare un altro tratto della cultura di sinistra, e non solo di essa: il gregarismo, il conformismo, l’attitudine a fiutare l’aria per poi correre tutti nella medesima direzione. Il plebiscito che ha sbalzato Bersani e incoronato Renzi è stato troppo repentino per non evocare altri cambiamenti di umore degli italiani, da fascisti ad antifascisti (nel 1943-45), da clientes dei partiti di governo a giustizialisti duri e puri (nel 1992-94).

La realtà è che Renzi, per ora, non ha affatto cambiato il Pd, come vent’anni fa aveva invece fatto Tony Blair con il Labour Party, attraverso una lunga battaglia a viso aperto. Semmai, è l’elettorato del Pd che ha cambiato Renzi, o lo ha indotto a crittare il suo messaggio originario. Si tratta ora di capire se sarà l’elettorato del Pd a usare Renzi per conquistare quella vittoria che Bersani non è stato capace di regalargli, o sarà Renzi a cominciare, pazientemente, quell’opera di trasformazione delle coscienze che è la premessa di ogni vero cambiamento.

mercoledì 11 dicembre 2013

Il governo Letta è assediato.

Il governo Letta ha ricevuto la fiducia delle Camere, ma la foto dell'Italia di oggi porta l'immagine di un governo assediato, sia dentro il Parlamento che nel Paese. Che altro è infatti il caos che da tre giorni sta paralizzando le grandi città, in particolare Torino, se non un assedio al governo e genericamente ai partiti che lo sostengono. I Forconi e tutto quel miscuglio di manifestanti di ogni classe e di ogni risma che manifestano in nome dell'Italia, stanno mettendo a soqquadro le città senza che si riesca a capire che  cosa vogliano esattamente; sembra che il loro obiettivo sia solo quello di creare disordine e confusione. In termini politici quel che sta avvenendo può essere solo catalogato come un movimento eversivo di destra antidemocratico e di evidenti ascendenze fasciste.
Ed anche i partiti che hanno negato la fiducia a Letta, con il loro linguaggio, le loro volgarità, le minacce, la demagogia esasperata, sono stati oggi una cassa di risonanza  se non addirittura una sorta di complicità con i disordini e le violenze di piazza organizzate dai forconi. Mi riferisco ai vari leghisti, ai berlusconiani, ai grillini, agli ex missini ecc. Tutti costoro oggi nel dibattito alle Camere hanno esibito il peggio di sé in totale sintonia con il peggio della società italiana che manifesta nelle piazze occupando le vie di comunicazione, le stazioni ferroviarie, le sedi istituzionali. Se questa non è eversione che altro nome le dobbiamo dare?  Temo che il cammino del governo non sarà molto tranquillo, sarà bene che Letta si prepari ad affrontare giorni difficili. Anche i partiti che l'appoggiano in particolare il PD del nuovo segretario, dovranno affrontare situazioni forse non previste. Speriamo nelle loro capacità e nella loro intelligenza.

lunedì 9 dicembre 2013

La nuova sinistra

La vittoria di Renzi più grande di quanto ci si aspettasse. Alta affluenza al voto e tanti consensi a lui.
Ho ascoltato con intimo entusiasmo il suo discorso di ieri sera quando è apparso sorridente e veramente gioioso sui teleschermi di Bianca Berlinguer.
Il suo più chiaro messaggio è stato semplice e convinto, è nata la nuova sinistra, non abbiamo cambiato campo - ha detto - vogliamo cambiare un gruppo dirigente che il meglio di sé l'ha già dato.
Aggiungerei qualche modesta considerazione; la sinistra che nasce con Renzi è la sinistra di tutti,  e finisce quella di coloro che per la loro biografia politica si credevano superiori a tutti gli altri.
Nasce la sinistra della generazione che è stata sacrificata dalle vecchie privilegiate generazioni, quella sulle cui spalle pesa maggiormente l'attuale crisi politica ed economica, coloro cioè che stanno pagando per tutti. Sarà questa mia, un'interpretazione sociologica e non politica, eppure il messaggio di Renzi dalle primarie dell'anno scorso ad oggi è stato sempre rivolto alla sua generazione di quarantenni esclusi e sacrificati. La rottamazione aveva questo solo significato: se non ribaltiamo tutto e tutti noi siamo fuori dalla storia. I molti che sono andati a votarlo ieri il messaggio l'hanno capito ed ora si stanno riappropriando di un ruolo e di una politica.
Certo il compito che l'aspetta è molto difficile da affrontare, anche molto complesso, aggravato com'è dalla crisi economica e ancor più da una crisi di cultura politica dentro  una società italiana frammentata e divisa da egoismi corporativi molto consolidati. La vecchia classe dirigente non ha saputo affrontare la situazione, ora tocca alla generazione di Renzi, bisogna augurarsi che abbia le risorse morali e culturali e la genialità politica per una rinascita dell'Italia. Io ho fiducia in loro. Per come conosco i miei figli e i loro amici, che appartengono appunto alla generazione di Renzi, penso che ce la faranno. Dopo tutto è meglio che il loro futuro sia nelle loro mani invece che nelle mani  delle vecchie generazioni che li hanno caricati di debiti e di problemi irrisolti. Buon lavoro a Renzi.
Mi dispiace un po' per il risultato scarsino di Cuperlo. D'altra parte è lui stesso che ha voluto interpretare un ruolo un po' improprio anche per lui, ha voluto rivolgersi alla vecchia sinistra nostalgica del passato, la quale non esiste più,  né nella cultura odierna e nemmeno nell'elettorato; già si era avvertito che le cose stavano così alle primarie dell'anno scorso,  ma, è stato soprattutto alle elezioni politiche di quest'anno, che se n'è avuta la conferma.
Anche la sinistra si evolve! Il partito della sinistra italiana è il nuovo PD di Matteo Renzi.

mercoledì 4 dicembre 2013

Memento

 
Questa notte è morto Sandro Fontana. I giornali di domani sia bresciani che quelli nazionali, sicuramente parleranno di lui e della sua carriera politica che è stata notevole per impegno e importanza. Egli infatti è stato un leader politico democristiano di prim'ordine.
Ma non scriverò di questo, né scriverò delle sue scelte politiche che non condivisi, ma scriverò di quelle scelte che percorremmo insieme quando eravamo entrambi giovani, lui già affermato, io giovane operaio alle prime armi. Confesso che allora fu per me un esempio da seguire e da imitare, per molte ragioni; egli era un giovane molto  brillante, di facile eloquio e genialmente affascinante; i suoi interessi culturali e le sue ricerche storiche sulle classi popolari contadine e operaie erano di grande attualità. Discepolo del professor Passerin D'Entreves, ci fece conoscere, nel sodalizio che anche lui ebbe con Michele Capra e con il gruppo dei sindacalisti dell'OM, l'antifascismo militante di Gobetti, di Salvemini,  dei cattolici democratici organizzatori delle leghe bianche e del sindacalismo cattolico contadino. Aveva allora una grande sensibilità politica e sociale verso le classi sfruttate, specie quelle cattoliche, rimaste estranee al moto risorgimentale, e quindi più di altre bisognose di un riscatto politico, non paternalistico,  che lui perseguiva con gli studi e con l'azione politica nella DC. Si formò con lui e con Michele Capra quel sodalizio politico legato a Donat-Cattin, sindacalista torinese e leader nazionale della corrente DC di Forze Nuove, che avviò alla politica attiva giovani delle classi popolari provenienti dal mondo operaio e contadino. 
Voglio ricordare di Sandro quel sodalizio e quell'amicizia giovanile perché penso  che da parte sua non venne mai meno, anche se la lotta politica all'interno della Dc ci portò su strade diverse e ad un certo punto molto divergenti. Perché quell'amicizia fu parte importante della mia formazione culturale e politica, e che rimane oggi, in questi tempi così sgangherati, una cosa molto bella da ricordare, perché infine, per me,  è questo il Sandro Fontana che ci ha lasciato.
Gli ultimi anni della sua vita furono molto travagliati a causa di una malattia grave e assai penosa, l'ho rivisto alcune rare volte molto sofferente e molto cambiato. Quanta amarezza gli ha riservato la vita. Ai familiari e ai fratelli le mie condoglianze.

giovedì 28 novembre 2013

Il partito che ancora non c'è.

Poiché sono a casa bloccato da un trauma alla schiena e non sapendo come ingannare il tempo, ho sfogliato un po' di notizie in internet e ho trovato l'intervista del senatore Corsini al Corriere della Sera, nella quale annuncia il suo ritiro da parlamentare alla fine di questa legislatura. Elencando poi una serie di ragioni critiche del perché egli abbandona l'agone politico.
La principale che egli non dice, sembra a me che sia quella che è meglio lasciare che essere cacciati.
Infatti a lui non piace Renzi e non piace il partito che sarà il PD se Renzi vincerà e diventerà segretario nazionale perché sarà un partito personale. A lui piace il partito che è stato il PDS il DS e che ora non c'è più. Perché era un partito collettivo e non piace il PD di adesso perché come dice Calise è un partito di piccoli oligarchi.
Corsini è una persona simpatica, un poco supponente, afflitto sempre da quel virus di appartenere ad una specie superiore, di essere cioè migliori degli altri e purtroppo di non essere compresi, sicché il popolo italiano non li ha mai favoriti nelle competizioni elettorali, non hanno mai vinto.
Corsini e come lui molti del gruppo dirigente degli ex PCI non si sono mai chiesti come mai dalla fine della seconda repubblica, quando la magistratura in un sol colpo liquidò la DC e il PSI, la classe dirigente che si trovò la strada spianata da questo evento, non è mai riuscita a convincere il popolo italiano che loro erano i migliori, gli unici che avrebbero sollevato le sorti dell'Italia. Abbiamo avuto vent'anni di berlusconismo, interrotto da una vittoria di Romano Prodi. Una sola dico perché quella del 2006 non fu una vittoria, un semplice pareggio con una coalizione tanto raffazzonata da finire ingloriosamente dopo due anni.
E' questa la ragione per la quale il PD attuale non regge e deve cambiare. Il Partito che piacerebbe a Corsini e che spero non sia quello che vuole Cuperlo, è il partito che dalla " gloriosa macchina da guerra" del povero Occhetto ha collezionato solo sconfitte, ultima e la più penosa quella di Bersani.
 
Ciò detto io credo che sia necessario un radicale ricambio della classe dirigente del PD e un cambio anche generazionale che naturalmente sta già avvenendo. Non so cosa diventerà il PD se vincerà Renzi. So solo che non sarà più il PD di adesso, anche se vincerà Cuperlo il PD non sarà il partito che auspica Corsini, sarà certamente un partito diverso perché le cose che si vogliono conservare a oltranza vengono travolte dalla vita che scorre.
 
Per queste semplici ragioni io voterò per Renzi.
 
Ci sarebbe qualcosa da dire anche sulla politica amministrativa di Corsini come sindaco della città di Brescia per dodici anni. Un bilancio sicuramente positivo, ma non tutto rose e fiori. Ci sarà tempo anche per fare  la storia della sua amministrazione. Intanto basti dire che il periodo Corsini si colloca in una fase di transizione dopo un glorioso passato di amministrazioni a guida DC  e si conclude con l'avvento della peggiore amministrazione di centro destra. Ma lascio la storia agli storici futuri che giudicheranno, spero, con il giusto distacco.
 

venerdì 15 novembre 2013

Miserie della politica

Anche Vendola è stato pizzicato mentre telefona a un dirigente dell'Ilva di Taranto e insieme se la ridono di un cronista di una TV tarantina che intervistava il patron Riva. Ciò che stupisce in questa telefonata è soprattutto la confidenza con la quale Vendola tratta con il dirigente dell'Ilva. Un legame amicale e confidenziale non proprio adeguato al ruolo di presidente della Regione Puglia. 
Tra le cose che dice al dirigente, che ora è agli arresti domiciliari, c'è una frase che certamente non avrà fatto piacere a Landini. Dice infatti Vendola che i migliori alleati dell'Ilva sono quelli della Fiom che lo chiamano venticinque volte al giorno. Poveri lavoratori della Fiom!
A Nichi Vendola succede un poco come al ministro Cancellieri: pubblicamente sembrano irreprensibili, corretti, dediti alla cosa pubblica con abnegazione e disinteresse, servono le istituzioni di cui sono responsabili, con competenza e grande impegno politico, insomma: persone per bene, come si suol dire. Poi quando sono al telefono si scopre tutto un mondo nuovo, diverso, improvvisamente si scopre che sono amici dei potenti, che coltivano amicizie con persone non proprio irreprensibili, si scopre un intreccio di legami dove la politica, gli affari , le amicizie, forse anche gli interessi familiari sono parte non trascurabile dei loro interessi politici. Povera Italia!

Il Congresso del PD: il leader Maximo ha fatto sapere a Renzi che se diventerà segretario del PD dovrà fare i conti con lui e con tutti quelli che come lui ritiene Renzi non un avversario dello stesso partito, ma, questo è il punto, il nemico del partito che lui ha in mente. E perciò Renzi deve essere sconfitto, se non lo faranno gli elettori lo faranno gli iscritti che Lui, Massimo D'Alema, sta mobilitando e che continuerà a incalzare.
Il PD non diventerà mai un partito nuovo. D'Alema è già riuscito una volta a sconfiggere Renzi e temo che potrebbe riuscirci di nuovo. Con il risultato che il PD non diventerà mai un partito di maggioranza e un vero partito di governo. 
Il paradosso di D'Alema è il seguente: lui in tutta la sua lunga carriera politica non ha mai vinto una competizione elettorale. Si è però sempre impegnato perché nessun altro del suo partito riuscisse a vincere. Penso che continuerà in questo gioco.

Il patto di stabilità: Con buona pace del premier Letta e dei suoi ministri economici, a Bruxelles non hanno molto apprezzato la proposta del governo e meno ancora le proposte di modifica che il parlamento sta cercando di introdurre nel testo governativo. Ascoltando radio e tv e leggendo qualche commento qua e là sui giornali on-line resto convinto che il pessimismo è la chiave di lettura che più si adatta alla nostra situazione economica, politica etc. etc.  Io sono pessimista!

venerdì 1 novembre 2013

Una persona per bene

L'on Alfredo Bazoli dice che la signora Cancellieri è una persona per bene. Mi pare che il giudizio sia condiviso da molti, eppure non è la bontà della signora ad essere messa in discussione in questi giorni. Semmai nel caso della signora Giulia Ligresti, della cui famiglia la signora Cancellieri è amica di vecchia data, di bontà forse ne ha elargita con troppa leggerezza. Non credo infatti che nelle carceri italiane fosse  solo la signora Giulia Ligresti ad essere rinchiusa nonostante il suo cattivo stato di salute. Nelle condizioni della signora Giulia nelle carceri italiane credo ce ne siano più d'uno. Di questi dovrebbe occuparsi il ministro, anche se non sono suoi amici. Solo così un ministro può essere definito una persona per bene.

venerdì 25 ottobre 2013

Un'analisi impietosa della politica italiana

Quest'articolo di Antonio Polito sul Corriere on-line di oggi, fotografa in modo impietoso lo stato delle cose politiche in Italia

 
Provate a seguire da vicino l’iter di un provvedimento legislativo. Scoprirete che i partiti che compongono la maggioranza non sono tre come si dice, ma almeno sette. Nel Pd agiscono separatamente il gruppo dei «Renzi for president» e l’avversa coalizione del «Tutto tranne Renzi»; più un manipolo di deputati che rispondono direttamente alla Cgil. Nel Pdl i «fittiani» contendono palmo a palmo il terreno agli «alfaniani», e il consenso del Pdl va contrattato con entrambi (più Brunetta). Scelta civica si è sciolta in due fazioni, per niente moderate nella foga con cui si combattono. Per condurre in porto il vostro provvedimento preferito dovrete dunque fare sette stazioni della via crucis parlamentare, per quattro volte (se il governo non mette la fiducia, due letture alla Camera e due al Senato). Vi servono insomma ventotto sì. Un’intesa larghissima: si fa prima al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Una volta approvata, la nuova norma rimanderà di sicuro a un regolamento attuativo. E lì ricomincerà la vostra gimkana, stavolta tra i burocrati dei ministeri che hanno il potere di scriverlo.
Il nostro sistema politico-parlamentare è letteralmente esploso. E la cosa incredibile è che il massimo della frammentazione convive con il massimo del leaderismo nei partiti. Il Pd, che pure è il più democratico, è una monarchia elettiva (quattro capi in cinque anni, l’unico partito al mondo che incorona il segretario con una consultazione del corpo elettorale). Il Pdl è una monarchia ereditaria. La terza forza, il M5S, è una diarchia orientale, con un profeta e un califfo.
In queste condizioni il semplice fatto che esista un governo è già un miracolo, figurarsi l’operatività. Se andiamo a votare può anche peggiorare. E non è solo colpa del Porcellum . Con i partiti come sono oggi, e con i sondaggi che circolano oggi, nessun sistema elettorale, nemmeno il più maggioritario, può garantire una maggioranza solida. Se anche questa si producesse nelle urne, si spaccherebbe in Parlamento un attimo dopo, come è miseramente accaduto alla più formidabile maggioranza della storia, quella uscita dal voto del 2008 e guidata da Berlusconi. Da tre anni il governo della Repubblica non è più espressione del risultato elettorale. Nessuna delle coalizioni che abbiamo trovato sulla scheda appena otto mesi fa esiste più.
Qualsiasi terapia del male italiano deve passare da qui: come rendere il Paese governabile. Come aprirsi un sentiero praticabile tra due Camere, venti Regioni, più di cento Province, più di ottomila Comuni. Come ridurre il numero dei partiti, ridurne il potere, ridurne l’ingerenza. È infatti nel sistema politico-istituzionale che si è incistata nella sua forma più perniciosa quella crisi di cultura e di valori di cui hanno scritto sul Corriere Galli della Loggia e Ostellino.
La soluzione viene di solito indicata nelle riforme costituzionali. Solo chi spera nel tanto peggio tanto meglio può negarne l’urgenza. Ma neanche quelle basteranno se non si produce una profonda rigenerazione morale dei partiti. Laddove l’aggettivo «morale» non sta solo nel «non rubare», e il sostantivo «rigenerazione» non coincide con l’ennesimo «repulisti» affidato al codice penale: questo sistema politico è figlio di Mani pulite, e non sembra venuto tanto meglio.
Rigenerazione morale vuol dire innanzitutto una nuova generazione, homines novi . Vuol dire restaurare un nesso, anche labile, tra l’attività politica e il bene comune. Vuol dire liberarsi dei demagoghi e dei voltagabbana. L’Italia non può farcela senza una politica migliore.
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ANTONIO POLITO25 ottobre 2013 | 08:29© RIPRODUZIONE RISERVATA
 

domenica 20 ottobre 2013

Pessimismo della ragione


Questo articolo di Galli della Loggia pubblicato oggi 20 ottobre 2013 su Corriere on-line, rispecchia ciò che Gramsci definiva il “pessimismo della ragione”. Il pessimismo è da un po' di tempo la cifra delle analisi di Galli della Loggia. Per uscire da una situazione come la nostra attuale, che appare ineluttabile, Gramsci suggeriva “l'ottimismo della volontà”. La domanda che mi pongo è la seguente: si coltiva ancora nella società italiana “l'ottimismo della volontà”? Io non saprei rispondere.


Il potere vuoto di un paese fermo
Il fallimento di una classe dirigente

L’Italia non sta precipitando nell’abisso. Più semplicemente si sta perdendo, sta lentamente disfacendosi. Parole forti: ma quali altre si possono usare per intendere come realmente stanno le cose? E soprattutto che la routine in cui sembriamo adagiati ci sta uccidendo?

Sopraggiunta dopo anni e anni di paralisi, la crisi è lo specchio di tutti i nostri errori passati così come delle nostre debolezze e incapacità presenti. Siamo abituati a pensare che essa sia essenzialmente una crisi economica, ma non è così. L’economia è l’aspetto più evidente ma solo perché è quello più facilmente misurabile. In realtà si tratta di qualcosa di più vasto e profondo. Dalla giustizia all’istruzione, alla burocrazia, sono principalmente tutte le nostre istituzioni che appaiono arcaiche, organizzate per favorire soprattutto chi ci lavora e non i cittadini, estranee al criterio del merito: dominate da lobby sindacali o da cricche interne, dall’anzianità, dal formalismo, dalla tortuosità demenziale delle procedure, dalla demagogia che in realtà copre l’interesse personale.

Del sistema politico è inutile dire perché ormai è stato già detto tutto mille volte. I risultati complessivi si vedono. Tutte le reti del Paese (autostrade, porti, aeroporti, telecomunicazioni, acquedotti) sono logorate e insufficienti quando non cadono a pezzi. Come cade a pezzi tutto il nostro sistema culturale: dalle biblioteche ai musei ai siti archeologici. Siamo ai vertici di quasi tutte le classifiche negative europee: della pressione fiscale, dell’evasione delle tasse, dell’abbandono scolastico, del numero dei detenuti in attesa di giudizio, della durata dei processi così come della durata delle pratiche per fare qualunque cosa. E naturalmente ormai rassegnati all’idea che le cose non possano che andare così, visto che nessuno ormai più neppure ci prova a farle andare diversamente. Anche il tessuto unitario del Paese si va progressivamente logorando, eroso da un regionalismo suicida che ha mancato tutte le promesse e accresciuto tutte le spese.

Mai come oggi il Nord e il Sud appaiono come due Nazioniimmensamente lontane. Entrambe abitate perlopiù da anziani: parti separate di un’Italia dove in pratica sta cessando di esistere anche qualunque mobilità sociale; dove circa un terzo dei nati dopo gli anni ‘80 ha visto peggiorare la propria condizione lavorativa rispetto a quella del proprio padre. Quale futuro può esserci per un Paese così? Popolato da moltissimi anziani e da pochi giovani incolti senza prospettive?
Certo, in tutto questo c’entra la politica, i politici, eccome. Una volta tanto, però, bisognerà pur parlare di che cosa è stato, e di che cosa è, il capitalismo italiano. Di coloro che negli ultimi vent’anni hanno avuto nelle proprie mani le sorti dell’industria e della finanza del Paese. Quale capacità imprenditoriale, che coraggio nell’innovare, che fiuto per gli investimenti, hanno in complesso mostrato di possedere? La risposta sta nel numero delle fabbriche comprate dagli stranieri, dei settori produttivi dai quali siamo stati virtualmente espulsi a opera della concorrenza internazionale, nel numero delle aziende pubbliche che i suddetti hanno acquistato dallo Stato, perlopiù a prezzo di saldo, e che sotto la loro illuminata guida hanno condotto al disastro. Naturalmente senza mai rimetterci un soldo del proprio. Né meglio si può dire delle banche: organismi che invece di essere un volano per l’economia nazionale si rivelano ogni giorno di più una palla al piede: troppo spesso territorio di caccia per dirigenti vegliardi, professionalmente incapaci, mai sazi di emolumenti vertiginosi, troppo spesso collusi con il sottobosco politico e pronti a dare quattrini solo agli amici degli amici .

Questa è l’Italia di oggi. Un Paese la cui cosiddetta società civile è immersa nella modernità di facciata dei suoi 161 telefoni cellulari ogni cento abitanti, ma che naturalmente non legge un libro neppure a spararle (neanche un italiano su due ne legge uno all’anno), e detiene il record europeo delle ore passate ogni giorno davanti alla televisione (poco meno di 4 a testa, assicurano le statistiche). Di tutte queste cose insieme è fatta la nostra crisi. E di tutte queste cose si nutre lo scoraggiamento generale che guadagna sempre più terreno, il sentimento di sfiducia che oggi risuona in innumerevoli conversazioni di ogni tipo, nei più minuti commenti quotidiani e tra gli interlocutori più diversi. Mentre comincia a serpeggiare sempre più insistente l’idea che per l’Italia non ci sia più speranza. Mentre sempre più si diffonde una singolare sensazione: che ormai siamo arrivati al termine di una corsa cominciata tanto tempo fa tra mille speranze, ma che adesso sta finendo nel nulla: quasi la conferma - per i più pessimisti (o i più consapevoli) - di una nostra segreta incapacità di reggere sulla distanza alle prove della storia. E in un certo senso è proprio così.

L’Italia è davvero a una prova storica. Lo è dal 1991-1994, quando cominciò la paralisi che doveva preludere al nostro declino. Essa è ancora bloccata a quel triennio fatale: allorché finì non già la Prima Repubblica ma la nazione del Novecento: con i suoi partiti, le sue culture politiche originali e la Costituzione che ne era il riassunto, allorché finì la nazione della modernizzazione/industrializzazione da ultimi arrivati, la nazione del pervadente statalismo. Ma da allora nessuno è riuscito a immaginare quale altra potesse prenderne il posto.
Ecco a che cosa dovrebbe servire quella classe dirigente che tanto drammaticamente ci manca: a immaginare una simile realtà. A ripensare l’Italia, dal momento che la nostra crisi è nella sua essenza una crisi d’identità. Da vent’anni non riusciamo a trovare una formula politica, non siamo capaci d’azione e di decisione, perché in un senso profondo non sappiamo più chi siamo, che cosa sia l’Italia. Non sappiamo come il nostro passato si leghi al presente e come esso possa legarsi positivamente ad un futuro.

Non sappiamo se l’Italia serva ancora a qualcosa, oltre a dare il nome a una nazionale di calcio e a pagare gli interessi del debito pubblico. Abbiamo dunque bisogno di una classe dirigente che - messa da parte la favola bella della fine degli Stati nazionali e l’alibi europeista, che negli ultimi vent’anni è perlopiù servito solo a riempire il vuoto ideale e l’inettitudine politica di tanti - si compenetri della necessità di un nuovo inizio. Ripensi un ruolo per questo Paese fissando obiettivi, stabilendo priorità e regole nuove: diverse, assai diverse dal passato. Mai come oggi, infatti, abbiamo bisogno di segni coraggiosi di discontinuità, di scommesse audaci sul cambiamento, di gesti di mutamento radicale.

Mai come oggi, cioè, abbiamo bisogno proprio di quei segni e di quelle scommesse che però, - al di là della personale intelligenza o inclinazione stilistica di questo o quel suo esponente - dai governi delle «larghe intese» non siamo riusciti ad avere. Governi simili funzionano solo in due casi, infatti: o quando c’è un obiettivo supremo su cui non si discute, in attesa di raggiungere il quale lo scontro politico è sospeso: come quando si tratta di combattere e vincere una guerra; ovvero quando tutte le parti, nessuna delle quali ha prevalso alle elezioni, giudicano più conveniente, anziché andare nuovamente alle urne, accordarsi sulla base di un accurato elenco di reciproche concessioni per sospendere le ostilità e governare insieme. Ma nessuno di questi due casi è quello dell’Italia: dove sia il conflitto interno al Pd e al Pdl che quello tra entrambi è ancora e sempre indomabile, e costituisce il tratto politico assolutamente dominante. La ragione delle «larghe intese» ha così finito per divenire, qui da noi, unicamente quella puramente estrinseca che si governa insieme perché nessuno ha vinto le elezioni, e per varie ragioni non se ne vogliono fare di nuove a breve scadenza.
Certo, due anni fa, quando tutto ebbe inizio con il governo Monti, le intenzioni del presidente della Repubblica miravano, e tuttora mirano, a ben altro. Ma dopo due anni di esperimento è giocoforza ammettere che quelle intenzioni, sebbene abbiano conseguito risultati importanti sul piano del contenimento dei danni, appaiono ben lontane dal divenire quella realtà di cui l’Italia ha bisogno.

Con le «larghe intese», sfortunatamente, non si diminuisce il debito, non si raddoppia la Salerno-Reggio Calabria, non si diminuiscono né le tasse né la spesa pubblica, non si elimina la camorra dal traffico dei rifiuti, non si fanno pagare le tasse universitarie ai figli dei ricchi, non si fa ripartire l’economia, non si separano le carriere dei magistrati, non si costruiscono le carceri, non si aboliscono le Province, non si introduce la meritocrazia nei mille luoghi dove è necessario, non si disbosca la foresta delle leggi, non si cancellano le incrostazioni oligarchiche in tutto l’apparato statale e parastatale; e, come è sotto gli occhi di tutti, anche con le «larghe intese» chissà quando si riuscirà a varare una nuova legge elettorale, seppure ci si riuscirà mai. Si tira a campare, con le «larghe intese», questo sì: ma a forza di tirare a campare alla fine si può anche morire .

lunedì 14 ottobre 2013

La faziosità gioca brutti scherzi

“Alla Leopolda Renzi voleva l’amnistia”
Ma quella proposta era tutt’altra cosa

LAPRESSE
 
 
Il bersaniano Di Traglia punzecchia il rottamatore. Quel provvedimento
riguardava la corruzione, prevedeva la confessione del reato e l’addio alla politica
Per descrivere il clima di divisioni - quando non vere antipatie - che persistono oggi nel Pd, può essere interessante raccontare un episodio, piccolo ma rivelatore. Ieri mattina, ospite in tv di Alessandra Sardoni a Omnibus, lo storico portavoce di Bersani Stefano Di Traglia ha ricordato che l’amnistia «era nelle cento proposte finali della Leopolda 2011», prevista «per politici corrotti a determinate condizioni». La discussione è poi andata avanti su altro, con questa pulce nell’orecchio dei telespettatori: Renzi era pro amnistia.

Per capire se le cose stanno davvero così bisogna incrociare un po’ di fonti scritte del 2011, oltre ai ricordi orali. Al punto 13 della Leopolda, a proposito di giustizia, si parla in effetti di amnistia; ma è un’amnistia «condizionata», e poi riguarda nella sostanza i reati di corruzione della classe politica. Le condizioni sono cinque: se il responsabile del reato «confessa il reato; menziona tutti i complici coinvolti; restituisce il maltolto; si ritira dalla vita politica», può essere amnistiato. Altrimenti, il beneficio non vale.

Si tratta di una «amnistia» diversa da quella su cui ha espresso dubbi Renzi, cioè l’amnistia alla quale ha fatto riferimento l’altro giorno il Presidente della Repubblica, citandola nel contesto del problema del sovraffollamento delle carceri, e non legandola affatto (anzi, rispondendo sdegnato a chi la legava) al problema della corruzione di qualche leader politico da amnistiare. Insomma, l’amnistia che era nelle proposte della Leopolda c’entra poco con l’amnistia dell’ultima polemica.

Ci sono tuttavia altri dettagli interessanti che emergono se si fa un po’ di archeologia di questa querelle. Il primo è che Leopolda era concepito come un cantiere aperto (un «work in progress», o un lavoro «wiki», si disse con qualche enfasi). Non un programma, ma una serie di idee aperte a tutti da cui estrarre poi quelle da presentare agli elettori. Il secondo è che il tema amnistia entrò nelle proposte della Leopolda perché appassionava Luigi Zingales, economista, in seguito avvicinatosi a Fare per fermare il declino (prima dello scandalo del falso master di Giannino). Zingales sosteneva che quella misura andasse introdotta assieme ad altre che favorissero una maggior meritocrazia nella mentalità pubblica italiana. E Renzi? Dalle fonti a disposizione non escono fuori sue affermazioni dirette pro amnistia. E qui si viene al terzo punto, che ci riporta all’inizio: al clima di divisioni dentro il Pd di oggi.

Quando Zingales alla Leopolda estrasse l’argomento «amnistia» (sia pure nella forma di cui s’è detto) bastò la sola espressione per far saltar su mezzo Pd. Nico Stumpo, il responsabile della macchina, s’incaricò di domandare: «Ho letto le proposte di Renzi. Vorrei capire bene il punto tredici dove si parla di amnistia per i corrotti». Renzi, che come si sa ha la battuta facile, sulla materia è invece sempre stato cauto e più che riflessivo.

Tra parentesi, quando ad agosto s’iniziò a parlare di un’amnistia per il sovraffollamento delle carceri (l’idea Cancellieri), col sospetto che favorisse il Cavaliere, il Pd fu tutto contro. Anzi, sdegnato. Parlò per la segreteria Davide Zoggia: «Sarebbe un’indecenza». Insomma, occhio: è un po’ come se ognuno si facesse la sua «amnistia», e la usasse poi polemicamente contro i nemici. Del suo partito, ovvio. 

mercoledì 9 ottobre 2013

Nostalgia

Si avvicinano le date dei congressi del PD per l'elezione del segretario e degli altri organi direttivi.  Quelli per l'elezione del segretario provinciale e del segretario della città capoluogo si svolgeranno domenica 27 ottobre. Anche a Brescia si nota un po' di movimento fra coloro che saranno chiamati all'elezione, vale a dire gli iscritti, anche se parlare di entusiasmo mi sembrerebbe un po' esagerato. Per il provinciale sarebbero in corsa tre concorrenti: il segretario uscente Bisinella, e due nuovi: Orlando e Vivenzi. Tutti e tre hanno esperienza amministrativa essendo tre sindaci di altrettanti paesi della provincia. Per la città invece non ci sarebbero concorrenti e il superbono De Martin si accingerebbe a sacrificarsi di nuovo per il bene del PD. Il capoluogo  è veramente a corto di classe dirigente di partito, tutti sono sistemati nelle più comode poltroncine delle istituzioni.
Quindi gli iscritti al PD, almeno in questi congressi locali, sono chiamati ad esprimere una scelta e volendo anche a partecipare a qualche discussione. Senonché voci circolate in rete sembrerebbe che nemmeno questo sia riservato agli iscritti, perché i tre concorrenti provinciali, ispirati dai "vertici" regionali, potrebbero accordarsi fra di loro su un'unica candidatura. Con buona pace delle belle intenzioni di rinnovamento, di partecipazione, di democrazia  ecc. ecc. In questo PD fanno tutto i Vertici, alla fine resteranno solo loro. Infatti a che serve iscriversi al PD, in un partito dove si conta come i cani nell'associazione della protezione animali? Non si meraviglino poi  i Vertici se anche alle elezioni, vigente il comodissimo Porcellum, il PD verrà abbandonato pure dagli elettori.
Spero che non accada. Lo sanno tutti che nel PD ad ogni livello ci sono lacerazioni, rivalità, linee politiche assai diverse, è bene che vengano alla luce , è giusto che gli iscritti abbiano un qualche peso nella scelta dei dirigenti, è ora che ci sia anche un rinnovamento generazionale, è tempo che si faccia chiarezza sul  progetto con il quale  il PD intende proporsi agli italiani per ottenere la maggioranza dei loro voti e governare l'Italia. I congressi servono a questo e non per celebrare unitarie e  funeste liturgie di commiato.

lunedì 30 settembre 2013

Non facciamoci illusioni

Parafrasando un antico adagio possiamo dire che ogni popolo ha la classe dirigente che si merita. Intendo per classe dirigente non solo quella politica bensì quella imprenditoriale, finanziaria etc, vale a dire tutti quei gruppi sociali che rappresentano il potere in Italia. Se guardiamo alle vicende di questi giorni anche solo agli imprenditori, ai banchieri e ai politici c'è da perdere ogni speranza. La storia della Telecom e dell'Alitalia, per citare le due più importanti, non sono altro che il segnale di un capitalismo nostrano straccione e senza coraggio, vivace solo quando è assistito dallo Stato.
La classe dirigente politica, selezionata mediante il Porcellum , è con tutta evidenza incapace di governare questo nostro disgraziato Paese. Eppure i partiti che siedono in Parlamento li hanno scelti gli italiani. In questo senso è sempre valido l'antico adagio. L'Italia è alla mercé di persone alle quali gli italiani hanno affidato il loro destino. Quel che sta accadendo oggi con la crisi del governo Letta è già accaduto qualche mese fa con il governo Monti. Il padrone che fece cadere Monti è lo stesso che oggi fa cadere Letta e con lui l'Italia intera. All'indomani del governo Monti come votarono gli italiani? Forse è utile ricordarlo per non illuderci che il popolo italiano sia molto diverso da quello che andò alle urne nel febbraio scorso.
Furono chiamati alle urne circa 47 milioni di italiani.
12 milioni non si recarono  nemmeno alle urne
10 milioni votarono per la coalizione di Berlusconi
8.5 milioni votarono per M5S cioè per Grillo
Questi ultimi due raggruppamenti sono tra quelli che chiedono le elezioni anticipate anche oggi.
10 milioni votarono per la coalizione di Centro-sinistra
3 milioni per Scelta civica (Monti)
2.5 milioni dispersero il loro voto fra 31 partitini non presenti in parlamento
1 milione furono le schede bianche o nulle
I dati, arrotondati, sono tratti dal Ministero degli Interni
 
Ora se si mettono insieme quelli che non hanno votato, le schede non valide, i voti di Berlusconi che in un anno ha fatto cadere due governi per salvare se stesso, quelli di Grillo che vuole di nuovo le elezioni e quelli dei partitini ininfluenti, fanno in tutto 34 milioni di elettori.
Oggi in Parlamento favorevoli al governo Letta sono rimasti solo i rappresentanti di 13 milioni di italiani. Questa è la situazione!
Questo è il popolo italiano!

domenica 29 settembre 2013

Il vescovo di Brescia sull'omofobia

Nell'ultimo numero del settimanale "La voce del popolo" è apparso il seguente articolo del Vescovo Luciano Monari, riguardo alla legge contro l'omofobia. La parola del nostro vescovo  merita di essere letta con attenzione e diffusa.


Brescia.  Il Parlamento italiano discuterà una legge contro l'omofobia; questa legge vuole estendere all'omofobia quanto è stato stabilito dalla legge Mancino contro il razzismo. Nel nostro paese, infatti, non è lecito sostenere dottrine razziste perché il razzismo è considerato - giustamente - contrario ai principi fondamentali della società e della cultura di cui facciamo parte; in modo simile non si potranno avanzare tesi omofobe perché il rispetto degli omosessuali è considerato una necessità assoluta per la convivenza nel nostro paese.

Tutto bene; ma che cosa significa? Se il discorso è il rispetto di chi ha orientamenti omosessuali, della loro dignità di persone, della loro libertà personale, non ci sono obiezioni. Il soggetto dei "diritti della persona" è, appunto, la persona umana, prima e indipendentemente dalle sue qualificazioni ulteriori: piccolo o grande, ricco o povero, italiano o francese, bianco o nero...; aggiungere a questa lista anche la precisazione: "eterosessuale od omosessuale" non crea certo problemi. Si può anche dire che, siccome è facile sentire giudizi sprezzanti e derisori nei confronti delle persone con tendenze omosessuali, è giustificata una legge che tuteli il loro diritto a essere socialmente rispettati.

Ma la legge vuole anche decidere che l'eterosessualità e la omosessualità sono omologabili come due modi equivalenti di vivere la sessualità? Sarebbe un fatto curioso se non altro perché la totalità delle persone umane viventi nascono dall'incontro di uno spermatozoo maschile e di un uovo femminile. Bisognerà dunque riconoscere all'eterosessualità almeno la caratteristica di essere procreatrice, continuatrice della specie, cosa che non può essere evidentemente affermata dell'omosessualità. Mettere tutto sullo stesso piano significa negare che la procreazione significhi qualche cosa, che sia un valore, che sia utile alla società, che produca futuro e speranza... Capisco che viviamo in una cultura dove i valori tradizionali sono contestati e ciascuno si costruisce una scala di valori assolutamente personale; ma omettere la considerazione che solo l'unione di maschio e femmina è feconda e fa nascere dei figli mi sembra uno scotoma piuttosto notevole.

Vuol dire che dobbiamo disprezzare (o anche solo: valutare meno) chi vive una tendenza omosessuale? Non ci sono dubbi: no. La tendenza omosessuale non diminuisce di un millimetro la dignità della persona e non dice nulla del grado di creatività che chi sperimenta pulsioni omosessuali può esprimere e offrire alla società. Persone con pulsioni omosessuali hanno dato contributi immensi alla società per la loro sensibilità, attenzione, senso artistico; non sono certo inferiori agli altri. Ma questo vuol dire che l'impulso omosessuale è equivalente a quello che conduce verso l'altro sesso?

La natura ha inventato il sesso per avere una forma di riproduzione che permettesse una varietà maggiore delle specie e degli individui. Riproduzione sessuata significa che si uniscono due patrimoni genetici diversi; questi, uniti, costruiscono un individuo nuovo, che non è la clonazione dell'uno o dell'altro (cioè la produzione di un individuo col patrimonio genetico identico a quello di un altro individuo da cui deriva), ma un individuo inedito, portatore di una forma umana nuova e quindi suscitatore di una attesa nuova. È questo il valore significativo dell'eterosessualità. Se nella storia della cultura c'è stato un tabù, questo è il tabù dell'incesto; e il tabù dell'incesto nasce esattamente dal timore di bloccare l'alterità, di chiudere il futuro nel cerchio limitato della propria famiglia. L'incontro sessuale deve rivolgersi al diverso se si vuole che i patrimoni genetici si arricchiscano e non degradino col succedersi delle generazioni.

Nella omosessualità è presente la fatica di accettare il diverso, di rischiare la comunicazione con un individuo che sia sessualmente 'altro'. Che questa inclinazione sia legata al patrimonio genetico, che dipenda da esperienze psicologiche dell'infanzia, dal rapporto col padre o con la madre o da qualsiasi altra causa non lo so; a chiarire questo interrogativo si dedicheranno le persone che hanno competenze in biologia, psicologia, comportamento umano. Nello stesso modo diventa difficile giudicare gli atti omosessuali e non è questo il problema della legge.

Non c'è dubbio che alla persona omosessuale vanno riconosciuti gli stessi diritti della persona (e i medesimi doveri) che sono riconosciuti agli altri. Così a nessuno è lecito disprezzare o deridere una persona omosessuale; tra l'altro questo modo di fare tradisce una insicurezza di identità e quindi dice forse più cose sul derisore che sul deriso. Ma questo non significa che due comportamenti diversi, che danno contributi del tutto diversi alla edificazione della società umana, debbano essere pensati equivalenti per decreto. Le decisioni giuridiche possono comandare o proibire, ma non mutano la realtà delle cose.

Spero dunque che la legge non voglia decidere che cosa si debba pensare sulla sessualità etero o omo che sia; che non voglia chiudere la riflessione come se tutto fosse chiaro e chi la pensa diversamente sia soltanto un depravato che immette veleni nel corpo sociale. Se si vogliono colpire i comportamenti lesivi della dignità delle persone con tendenze omosessuali, d'accordo, si dovrà però spiegare perché non bastino le leggi vigenti e relative aggravanti (“per motivi abbietti”) riconosciute e applicate da decenni. Se invece si vuole proibire di fare una distinzione tra comportamenti omosessuali ed eterosessuali, la legge farà un buco nell'acqua. Non è proibendo di parlare e di discutere che si raggiungeranno convinzioni vere sulla questione, che si comprenderà meglio la sessualità e che si costruirà una società più umana

di + Luciano Monari  

 

sabato 1 giugno 2013

Le riforme del governo Letta

Questo che segue è un brano tratto da un articolo di Curzio Maltese su repubblica di oggi, con tutta la buona predisposizione verso il governo Letta, è difficile dar torto al giornalista.

Ogni volta che l'antipolitica comincia a mostrare i propri limiti, come accade in questi giorni con la sconfitta di Beppe Grillo alle amministrative, arriva puntuale la solita furbata del ceto politico. Per ricordarci le ragioni che hanno portato un ex comico a prendere il 25 per cento dei voti. La strana maggioranza destra-sinistra si sta impegnando per non cambiare nemmeno il finanziamento pubblico ai partiti.

E questo dopo aver fatto capire agli italiani di non avere alcuna intenzione di cambiare sul serio la porcata della legge elettorale, nonostante l'impegno solenne preso con il Quirinale. Il massimo che farà è di cambiare nome al finanziamento pubblico ai partiti. Come del resto è già avvenuto dopo il referendum che l'avrebbe in teoria abolito da un quarto di secolo.

In un Paese dove la metà degli elettori domenica scorsa non è neppure andata a votare, prendere ancora in giro i cittadini su questi temi è miope e sciocco.

I dettagli sono spiegati altrove, qui conta la sostanza. La sostanza è che con la nuova legge del governo Letta cambia poco, si tratta appena di uno sconto sulla pioggia di danaro versato dall'erario nelle casse dei partiti. E già su quel poco si accapigliano, perché molti, soprattutto a destra, non vorrebbero rinunciare al benché minimo privilegio, con tanti saluti alle promesse elettorali.

lunedì 13 maggio 2013

Analisi del voto

Articolo di Antonio Polito pubblicato sul Corriere della Sera del 10 maggio 2013

È davvero sorprendente che undici settimane dopo il più grande terremoto elettorale della storia della Repubblica, nessun organo dirigente del Pd abbia ancora fatto un’analisi del voto. Domani riparte la giostra dei nomi, dei segretari, dei reggenti, degli organigrammi. Le correnti sono in piena attività. Tutti vogliono decidere chi guiderà il partito, ma per fare che cosa nessuno lo sa. E finché non si studierà cosa è successo nelle urne alla sinistra italiana, è impossibile saperlo. La prima cosa che bisognerebbe discutere è questa: la sinistra italiana ha ottenuto il suo risultato peggiore proprio quando ha creduto di poter fare da sola. La coalizione di Bersani ha infatti raggiunto una percentuale di voti alla Camera (il 29,5%) inferiore perfino alla tanto vituperata macchina da guerra di Occhetto, che ottenne il 32,75 nel 1994, all’alba della Seconda Repubblica. Il solo Pd di Veltroni ebbe cinque anni fa un risultato di gran lunga migliore di Bersani e Vendola messi insieme. Perfino Togliatti e Nenni, nella sconfitta storica del 1948, fecero un po’ meglio sfiorando il 31%. A occhio e croce si direbbe che il primo cruccio del Pd dovrebbe essere quello di ricostruire un sistema di alleanze che gli consenta di uscire fuori dal recinto elettorale della sinistra, ormai dimostratosi troppo angusto per poter mai vincere le elezioni. D’altra parte, la coalizione con Vendola in Parlamento già non esiste più, ed è dunque inservibile come progetto politico su cui ricostruire. La seconda osservazione andrebbe fatta sulla distribuzione geografica del voto per la sinistra: è sostanzialmente uguale a quella che era subito dopo il fascismo, nel 1948, e anche subito prima, nel 1919: al di fuori del quadrilatero delle regioni rosse, la sinistra è minoritaria ovunque (cito elaborazioni del Cise di D’ALimonte). Ma, rispetto a cinque anni fa, il deterioramento è stato minore nel Nord-Est, dove il Pd ha perso «solo» il 4% dei suoi voti, ampio al Nord Ovest (meno 8,3%), amplissimo al Sud (meno 9,5%), e più ampio che mai nelle regioni rosse (meno 10%). Questo vuol dire che la sinistra deve considerare a rischio perfino ciò che finora dava per scontato, perché è emerso un concorrente più in grado dell’avversario tradizionale di penetrare nelle sue roccaforti. Il Movimento s Stelle è stato infatti il primo partito in tutte le provincia delle Marche, in una provincia dell’Emilia Romagna e in una della Toscana (è il primo partito in 50 provincie contro le 40 del Pdl). Tutto ciò nonostante che al vertice democratico stavolta ci fossero gli «emiliani». La lezione da trarre è che la vera novità del competitore grillino non sta solo nel fatto di avere un messaggio più radicale, che si presume più «di sinistra» e che più d’uno nel Pd vorrebbe ora imitare; ma ancor di più sta nel fatto che è una forza più trasversale, capace cioè di attrarre elettori di destra oltre che di sinistra, qualità che al Pd invece manca. Dei quasi nove milioni di voti andati al M5S (cito elaborazioni dell’Ipsos di Pagnoncelli), il 30% viene da chi ha votato a sinistra nel 2008, ma il 31% viene da chi votò a destra, per Berlusconi e per Bossi; più un altro 36% che viene dal non voto e dal nuovo voto. Sarebbe bastato aver studiato questi dati per evitare qualche brutta figura e capire che per Grillo era impossibile dare via libera a un governo Bersani: i 5 Stelle non possono allearsi in Parlamento con nessuno, perché qualsiasi alleanza scontenterebbe un terzo del loro elettorato (è questo, tra l’altro, il vero punto debole del Movimento sulla lunga distanza). Il partito di Grillo ha insomma raggiunto quell’interclassismo e quel trasversalismo sociale che erano l’ambizione alla base della nascita del Pd: ottiene più voti tra gli imprenditori e i dirigenti (25% MSS; 23% Pd) e tra i lavoratori autonomi (39% M5S; solo 15% il Pd); ma anche tra gli operai (29% MSS contro il 20% del Pd, che qui è battuto anche dal Pdl al 24%) e tra i disoccupati (33% al MsS e il 23% al Pd). L’unica categoria sociale in cui il Pd svetta rispetto ai concorrenti è quella dei pensionati: vi ottiene il 37% dei voti, contro il 25% del Pdl e un magrissimo 11% di Grillo. Non era dunque vero che si sarebbe intercettato meglio lo stato d’animo del paese spostandosi più a sinistra e identificandosi di più con la Cgil (sindacato nel quale, d’altra parte, i pensionati sono la maggioranza degli iscritti). L’ultima lezione che il Pd potrebbe trarre da un’analisi del voto, se e quando la vorrà fare, è l’impressionante invecchiamento anagrafico del suo elettorato: la metà è composta da persone al di sopra dei 55 anni (e tra quelle oltre i 65% la percentuale è del 32%). Gli ultra-cinquantacinquenni sono invece solo il 19% dell’elettorato grillino; e tra i giovani che hanno votato per la prima volta il Pd raccoglie l’8% dei suoi voti, contro il 13% del M5S. Infatti alla sinistra è andata molto peggio alla Camera, dove votano i diciottenni, che al Senato: una differenza del 2,1%. Il che obbligherebbe a una revisione complessiva dei linguaggi, delle forme, dello stile della politica, dai comizi all’ossessione televisiva fino a un uso così ingenuamente ludico del web da sembrare provocatorio. Alleanze, proposta, messaggio: prima di darsi un nuovo segretario il Pd dovrebbe decidere che fare. E quel che va fatto sta scritto nei dati elettorali. Bisognerebbe cominciare a leggerli.

venerdì 5 aprile 2013

La nostra primavera: fredda e piovosa

Ogni tanto sugli schermi televisivi durante i telegiornali, compare un tale di nome Davide Zoggia ( così mi pare si chiami) il quale, non si sa per conto di chi, sentenzia che ciò che dice Matteo Renzi non è la linea del partito.
Ecco, in questa fase storica della politica italiana nella quale i partiti politici praticamente non esistono, c'è qualcuno che rivendica l'esistenza del "Partito" quasi fosse un'entità metafisica, luogo dove è  custodita la verità del PD.  E non lo dice con la leggerezza ironica di chi sa di prendersi in giro, no,  lo fa con la gravità pensosa del custode dell'ortodossia preoccupato del diffondersi dell'eresia renziana. Poveri noi, come siamo messi male.
Infatti qual'è la linea del PD? "Che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa".
Quella di Bersani io l'ho chiamata "immobilismo", egli infatti sta aspettando che un pugno di senatori del M5S si convinca a votargli la fiducia. Ma questa attesa nasconde una profonda mutazione culturale del PD, non c'è nulla infatti del M5S che possa coniugarsi con l'idea di democrazia rappresentativa propria del PD fino a prima delle elezioni. Ora, inseguire coloro che non hanno mai fatto mistero di voler massacrare e abolire la democrazia rappresentativa prevista dalla nostra Costituzione è una sciagura che l'Italia non meritava. La politica dei bersaniani porterà alla fine del PD. Resto sconcertato all'idea che nessuno nel PD ravvisi il pericolo che si sta correndo ad inseguire Grillo.
Intanto il governo può aspettare, non c'è fretta. I problemi dell'Italia possono aspettare. D'altra parte le tasse che dovremo pagare quest'anno: Imu Tares Iva ecc, già sono in vigore, e sembra che i mercati siano abbastanza soddisfatti. Gli altri problemi: gli esodati, gli ammortizzatori sociali, i disoccupati, i precari, i debiti della PA verso le imprese, la recessione, la riforma elettorale  ecc. ecc. non c'è nessuna fretta di affrontarli, tanto non ci sono risorse, a che scopo quindi formare un governo?
 

giovedì 4 aprile 2013

Quirinale: " soluzioni tempestive con ampia condivisione"

Matteo Renzi, con l'intervista di oggi al Corriere,  ha messo in subbuglio il Pd dicendo una cosa di una ovvietà sconcertante. Bersani sta perdendo tempo. Gli ha fatto eco Valerio Onida, uno dei saggi scelto dal presidente Napoletano, dichiarando che i saggi servono solo a far trascorrere il tempo che manca all'elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Dopo di che, il nuovo, non più impedito dalla costituzione, potrà sciogliere le Camere e torneremo a votare. A meno che, qualcuno del PD o almeno qualcuno sostenuto dal PD, riesca a formare un governo con il PDL. Questo è il quadro di riferimento.
Ora Bersani, con l'urgenza e la flemma richiesta dall'attuale congiuntura, si incontrerà nuovamente con tutti, forse escluderà gli scout, per trovare un accordo su un candidato presidente che raccolga una larga, anzi, larghissima maggioranza. Impiegherà tutti i giorni che mancano da qui al 18 aprile ma, sarei quasi certo, l'accordo non lo troverà. E il PD voterà un presidente con i soli voti del centro-sinistra. Un presidente che, dopo aver accontentato Bersani, dovrà sciogliere le Camere incapaci di votare un governo. E dopo andremo a votare, ancora con il Porcellum. 
Sono d'accordo con Renzi, naturalmente. E sempre più lontano dai moralisti del PD, dai cooptati  di Bersani e dalla turca gioventù.
Ricordo che abbiamo votato il 24/25  febbraio e prima del 25 aprile dubito che avremo il nuovo Presidente della Repubblica. Due mesi senza combinare nulla. Eppoi nel Pd c'è qualche marmotta che se la prende con Renzi perché dice che si sta perdendo tempo. Continuate a dormire.

martedì 2 aprile 2013

L'enigma di Bersani

Cosa vuole Bersani? Chi sarà capace di risolvere l'enigma che lui propone avrà salvato l'Italia. Qual' è l'enigma? Eccolo riassunto dai giornali di oggi.
La proposta del Pd per il governo resta tale e quale quella di prima. 
Se fosse di ostacolo è pronto a farsi da parte, ma nessuno glielo ha chiesto. E lui non va al mare.
Nessun governo con il PDL di Berlusconi.
E' il M5S che deve dargli la fiducia. Polemico con Grillo perché gliela  nega.
Comunque sia "il voto anticipato sarebbe disastroso".
Ecco riassunto in cinque punti l'enigma di Bersani. Come risolverlo lui non lo sa, questo è certo.
Ma anche nel PD non mi sembra che ci sia qualcuno che azzarda qualche soluzione diversa dall'immobilismo del segretario. Lui dice che non è ostinato. La cosa migliore che doveva fare, cioè dimettersi appena appreso il risultato delle elezioni, non l'ha fatta ed è vano pretendere che la faccia ora. Continuare a riproporre con insistenza di risolvere il suo enigma, ovviamente irrisolvibile, non fa che convincere gli italiani che non è il leader che serve al Paese.

domenica 24 marzo 2013

Non basta una legge elettorale

24/03/2013 Consiglio la lettura di questa "opinione" che anch'io condivido.

Non basta una legge elettorale

luca ricolfi
La politica è in crisi, sentiamo ripetere. E certo lo è, a giudicare dai risultati degli ultimi vent’anni: il Paese è allo sbando, molti politici sono corrotti, non si riesce a formare un governo. Quello che forse è meno evidente è che anche i rimedi che si stanno sperimentando non sono la soluzione, ma sono parte integrante della malattia.
La politica si sta comportando come una squadra di calcio in crisi che, per superare la crisi, cercasse di vincere le partite a tavolino, o condizionare gli arbitri, o accusare gli avversari di doping, anziché allenarsi di più e meglio, impegnarsi a fondo in partita, o cambiare qualche giocatore (e magari anche l’allenatore). È paradossale, ma la politica non sembra rendersi conto che i problemi che deve affrontare sono innanzitutto di natura politica, non di altro genere. E come tali andrebbero risolti sul campo, non invocando demiurghi e agenti esterni.

E invece è proprio questo che sta succedendo. La politica non sa risolvere i propri problemi politicamente, e allora ricorre continuamente a supplenti e surrogati. C’è un problema di privilegi e di costi della politica?
Ed ecco che scatta la gara a chi si riduce di più lo stipendio: l’etica viene chiamata a sostituire la politica.
C’è un uomo politico che avvelena la competizione fra destra e sinistra ma prende un sacco di voti? Ed ecco che scattano tutte le armi improprie disponibili: leggi nuove di zecca per impedire la ricandidatura, pressioni sulla magistratura perché reinterpreti una legge esistente, che «se ben interpretata» potrebbe mettere fuori gioco il politico che non si riesce a sconfiggere sul campo (una delle due manifestazioni di ieri a Roma aveva precisamente questo scopo, mentre l’altra – in modo specularmente aberrante – aveva lo scopo di difenderlo dalla magistratura). La legge, che dovrebbe semplicemente essere rispettata da tutti, viene chiamata a risolvere un problema politico che non si è stati capaci di risolvere con armi proprie, ossia con la sola forza della politica, pur avendone tutta la possibilità: se il Pd avesse candidato Renzi il politico della discordia sarebbe fuori giuoco, e noi non staremmo ancora qui a sfogliare la margherita delle alleanze (m’ama? non m’ama? Bersani non l’ha ancora capito che Grillo non lo ama?).

Ma il caso più interessante è quello della legge elettorale. Qui non solo nella testa dei politici, ma anche in quella degli elettori, si è installata una curiosa credenza. Dato che nessuno riesce a vincere le elezioni, dato che a un mese dal voto non si sa ancora chi sarà il premier, dato che in Parlamento non esiste alcuna maggioranza in grado di sorreggere un governo, allora si è portati a credere che la colpa sia della legge elettorale. Ma è una grandiosa bestialità. Le leggi elettorali possono essere più o meno buone, più o meno adatte a un Paese, più o meno scandalose, ma da sole non possono risolvere i problemi la cui natura è essenzialmente politica.
Se per quasi mezzo secolo in Italia non c’è stata alternanza fra destra e sinistra non è dipeso dalla legge elettorale proporzionale ma da due fattori genuinamente politici: la divisione del mondo in due blocchi, la mancata evoluzione del Partito comunista. Tanto è vero che i socialdemocratici tedeschi, che le loro scelte riformiste le avevano fatte già nel 1959 a Bad Godesberg (32 anni prima del Pci), non hanno dovuto aspettare la caduta del muro di Berlino per andare al governo, e lo hanno fatto con una legge di impianto prevalentemente proporzionale. L’alternanza al governo fra destra e sinistra, o fra conservatori e progressisti, è un frutto della politica, non della legge elettorale.

Così oggi in Italia è del tutto fuorviante pensare che possa essere una nuova legge elettorale a tirarci fuori dalle secche in cui la politica si è andata a cacciare. Se le elezioni non riescono a esprimere una maggioranza e il Parlamento non riesce ad esprimere un governo è per due precise ragioni, entrambe di natura politica. La prima è che il nostro sistema politico è improvvisamente divenuto tripolare, come nel 1992-1993 (subito prima della discesa in campo di Berlusconi), quando l’Italia per una breve stagione assunse un assetto tripolare, con la Lega egemone al Nord, il Pci al centro e la Dc al Sud. E i sistemi tripolari non sono immuni al «paradosso di Condorcet»: può succedere che una maggioranza preferisca A a B, un’altra B a C, ma che vi sia anche una maggioranza che preferisce C ad A. Mettete, nell’ordine in cui volete, Bersani, Berlusconi e Grillo al posto di A, B, C, e vedrete in che bel pasticcio potremmo esserci cacciati. La seconda ragione è che Bersani e Grillo, ossia i due semi-vincitori delle elezioni, pensano solo a conquistare (o riconquistare) voti, il primo puntando sull’antiberlusconismo (un’idea veramente nuova e originale, come si addice a un «governo del cambiamento»), il secondo scommettendo sulla nascita di un governo Pd-Pdl così abominevole da consegnare il 51% (pardon: il 100%) dei consensi al Movimento Cinque Stelle.

Pensare che da un simile ginepraio possa tirarci fuori una legge elettorale è molto ingenuo. Certo, l’orrido Porcellum va cambiato, e alla svelta (io avrei anche una proposta: chiediamo a Giovanni Sartori, il nostro studioso di sistemi elettorali più illustre, di scrivere lui una legge sensata). Ma nessuna legge elettorale può produrre, di per sé, quel che solo la politica può darci, ossia un governo che abbia il consenso necessario per governare. Se tornassimo al proporzionale, cadrebbe la finzione attuale del vincitore (chi ottiene il premio di maggioranza), ma comunque dovremmo assistere ai medesimi estenuanti negoziati di oggi. Se sopprimessimo il Senato e mantenessimo l’attuale premio di maggioranza alla Camera, assisteremmo alla nascita di governi che hanno il 54% dei seggi in Parlamento e il 25% dei consensi nel Paese (tenuto conto del non voto, è questo il consenso reale di cui godono oggi Bersani-Berlusconi-Grillo). Se adottassimo il doppio turno alla francese, che tanto piace al Pd, dovremmo prepararci ad assistere al paradosso dei sistemi tripolari: il vincitore del primo turno perde al ballottaggio, perché il terzo arrivato si allea con il secondo. Spieghiamolo con due esempi: nelle regioni rosse vanno al ballottaggio Pd e Grillo, ma il Pdl escluso si vendica votando Grillo. Nelle regioni bianche vanno al ballottaggio Pdl e Grillo, ma il Pd escluso si vendica votando Grillo. Insomma, vince sempre Grillo, anche se Pd e Pdl hanno il doppio dei suoi voti.

Per questo, pur convinto che le regole del gioco vadano rinnovate, e vadano rinnovate nel senso di una maggiore efficienza – una sola Camera, meno deputati, più potere al premier, regolamenti parlamentari snelli – vedo con qualche perplessità l’attuale tentativo di Bersani di ottenere la benevolenza del Pdl con una mera intesa sulle regole. Di regole istituzionali meno paralizzanti c’è sicuramente bisogno. Di una nuova legge elettorale pure. Ma le regole servono per governare, e governare significa affrontare tutti gli altri problemi, ossia lavoro, tasse, stato sociale. Di un accordo sulle regole che lasci tutto il resto come prima, con una sinistra e una destra che si odiano, e odiandosi paralizzano qualsiasi governo, non si sente proprio il bisogno.  

mercoledì 20 marzo 2013

La scelta al Presidente Napolitano

Oggi sono iniziate le consultazioni del Presidente Napolitano in vista della formazione di un governo. Domani ci sarà l'incontro con Bersani, il quale si augura di ricevere l'incarico di formare il governo. In verità Bersani sta portando il PD in un vicolo cieco perché non riuscirà a trovare una maggioranza al Senato e forse non riuscirà nemmeno a ricevere l'incarico da Napolitano. La cosa più sensata che avrebbe dovuto fare dopo aver conosciuto il risultato delle elezioni era di dimettersi da segretario del PD, perché Bersani le elezioni le ha perse e chi perde si fa da parte.
Purtroppo la smania di successo che coglie anche le persone in apparenza miti e ragionevoli, fa perdere il ben dell' intelletto.
L'argomento che usa Bersani per pretendere l'incarico è quello che la sua coalizione ha la maggioranza della Camera e la maggioranza relativa del Senato. In verità è l'assurda legge elettorale del Porcellum che ha prodotto questo risultato, palesemente lontano dall'effettivo orientamento dei cittadini che sono andati al voto. Gli elettori hanno distribuito i loro consensi a tre coalizioni quasi equivalenti più una quarta che, seppur più piccola, è riuscita comunque a impedire il successo al centro destra di PDL-Lega. Non è possibile governare un Paese nelle condizioni drammatiche in cui siamo, con trequarti dei cittadini all'opposizione. Questo Bersani lo dovrebbe capire. Al punto in cui siamo quindi cosa farà il presidente Napolitano?
Io penso che difficilmente darà a Bersani un incarico formale, tutt'al più gli darà un incarico esplorativo. Constatato il fallimento potrà tentare un incarico per un governo d'emergenza istituzionale. Se fallisse anche questo non gli resterà che aspettare la nomina del suo successore che scioglierà le Camere.
Questo è un evento che io tenderei a escludere non per ragioni politiche o ideologiche o istituzionali, ma per una semplice ragione di convenienza dei membri del nuovo Parlamento. Bisogna ricordarsi che tutti questi nuovi parlamentari sono diventati tali con molta facilità, senza grandi sforzi né finanziari né senza svolgere nessuna faticosa campagna elettorale, e anche senza merito, stante il fatto che molti di loro non hanno mai fatto nemmeno un poco di esperienza amministrativa nei loro comuni. Ed ora si trovano a dover gestire le sorti del loro Paese. E' verosimile che si lascino mandare a casa senza neanche provare per qualche mese il " brivido" dell'essere onorevoli? Io credo di no. A dispetto delle poche prese di posizione di radicale inconciliabilità degli uni con gli altri fatte in questi giorni e dei lunghi silenzi, soprattutto dei nuovi parlamentari, alla fine troveranno il modo di restare seduti - almeno per un po' di tempo -  su quel posto, tanto ambito e da loro così facilmente conquistato; penso anche che dovranno riuscire a convincere noi elettori  di avere meritato di essere stati eletti, dimostrando nei loro comportamenti di essere  migliori  della generazione che li ha preceduti sugli scranni del Parlamento ma, per poterlo fare, non vorranno essere mandati a casa subito!

giovedì 14 marzo 2013

Papa francesco

Quando Benedetto XVI annunciò le sue dimissioni da Papa scrissi nel mio diario la seguente nota.
14 febbraio 2013
La rinuncia di Benedetto XVI
Dire di essere rimasto sorpreso è niente. Un annuncio inaspettato, ancorché con gli amici avessimo già notato come negli ultimi tempi Benedetto XVI apparisse molto affaticato e stanco.La decisione del Santo Padre, l’hanno già detto in molti, è una decisione di portata storica, non paragonabile con nessuna delle precedenti, nemmeno con quella di Celestino V. Io credo che una delle conseguenze di questa decisione sarà la perdita di quel senso di sacralità che sinora aveva rivestito la persona del Pontefice e che porterà inevitabilmente a considerare il Papa semplicemente come il vescovo di Roma, uno dei tanti vescovi della cristianità, e come tale non più il vicario di Cristo in terra, ma il successore, insieme agli altri vescovi, degli apostoli. Se si verificherà un passaggio di questo genere, per carità opinione del tutto personale della quale non saprei nemmeno quali implicanze teologiche potrebbe avere, credo che potrebbe essere molto facilitato l’ecumenismo e la ricomposizione dell’esperienza cristiana in una chiesa “unam sanctam cattolicam et apostolicam”.
Ovviamente era una nota che proseguiva con altre considerazioni un po' più serie, essendo questa frutto della mia ignoranza in materia di diritto canonico e quasi senza alcuna competenza in materia teologica.
Tuttavia mi sono ricordato di queste effimere parole dopo l'elezione, per me anch'essa sorprendente, di Papa Francesco, il quale mi ha colpito soprattutto per le prime parole rivolte ai fedeli in attesa in Piazza S.Pietro. Egli si è presentato come il vescovo di Roma ed ha attribuito al vescovo di Roma il compito di presiedere "con carità" i vescovi di tutte le altre chiese. Ha nominato il suo predecessore chiamandolo vescovo emerito. Non ha mai pronunciato la parola pontefice romano ha posto invece l'accento sul suo mandato di vescovo di Roma. Insieme alla scelta del nome che nessun papa aveva mai preferito , queste prime parole sono a mio giudizio un segno di grande novità e - come si usa dire fra chi ne sa più di me - sono parole profetiche.

mercoledì 27 febbraio 2013

Un rispettoso e filiale saluto a Benedetto XVI

Nel salutare Benedetto XVI,  che stamattina ha officiato la sua ultima udienza pubblica in S.Pietro, essendo anche in coincidenza con l'elezione del nuovo Parlamento italiano, di quest'Italia che stamattina il Papa ha ricordato con affetto, mi piace salutarlo ricordando un brano del discorso da lui tenuto al Bundestag della Germania giovedì 22 settembre del 2011.
"Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. “Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino"

lunedì 25 febbraio 2013

Fine di una illusione

Diciamo le cose come stanno: quella che si prevedeva con orgogliosa sicurezza una vittoria della coalizione Bersani, è in verità una sconfitta senza speranza. Quel che sta accadendo nello spoglio delle schede elettorali è la conseguenza della battaglia che l'apparato del PD ha condotto contro Matteo Renzi, cioé: il mancato rinnovamento del partito  e della sua classe dirigente. Le primarie per la scelta dei candidati, evidentemente,  non sono bastate per cancellare l'immagine di un partito chiuso e vecchio. I voti persi dal Pd sono stati raccolti dal Movimento cinque stelle, vero vincitore di queste elezioni. Non si sa nemmeno se Bersani riuscirà a formare un governo e se si sentirà di assumere questa responsabilità. La crisi del PD si è riaperta.

venerdì 22 febbraio 2013

Fine della campagna elettorale



Finalmente questa sgangherata e insulsa campagna elettorale si è conclusa, stasera gli ultimi comizi e poi domenica e lunedì si vota. Non ho mai assistito ad una campagna elettorale così: piena di insulti, di  menzogne, di millanterie, che ha dato una immagine degli italiani tanto dilaniati e divisi da indurmi  al peggior pessimismo circa il nostro futuro.
Le previsioni danno il PD vincente alla Camera, incerto il risultato al Senato, e incerto il risultato alla Regione Lombardia. Le due ultime incertezze mi hanno convinto che bisogna serrare le fila e votare PD senza tentennamenti.
Coloro che hanno a cuore le sorti democratiche dell'Italia, il suo avvenire economico e vogliono impedire l'inarrestabile declino verso il quale ci siamo avviati, devono mettere da parte pregiudizi e riserve varie -  nessun partito avrà mai tutti i crismi della nostra simpatia -  e votare per la coalizione guidata da Bersani, l'unica che può vincere questa competizione. Se non ce la fa Bersani, sarà il caos.
La novità del "Movimento cinque Stelle"
Le previsioni danno in grande ascesa il “Movimento cinque Stelle”, credo anch’io che avranno un grande successo elettorale. Le ragioni del loro successo a mio parere sono le seguenti:

1)     La Legge elettorale vigente, una vera canagliata contro la democrazia, criticata da tutti i partiti, i quali però non l’hanno mai voluta cambiare veramente.

2)    La chiusura oligarchica dei partiti politici e dei sindacati i cui gruppi dirigenti si sono trasformati nel corso degli anni in una specie di burocrazia inefficiente e inamovibile, la cosiddetta casta. Sola eccezione recente  il PD, grazie alla sfida di Matteo Renzi.

3)   I costi della politica, che comprendono stipendi, vitalizi, spese elettorali ecc. i quali hanno raggiunto livelli intollerabili per ogni onesto cittadino.

4)   La politica intesa come occasione per arricchirsi personalmente, abbandonando l’idea alta della politica intesa come servizio all' interesse generale  e ai propri cittadini elettori. Da qui corruzione e ruberie varie.

5)   Infine la crisi economica che colpisce duramente le classi più deboli della società italiana ed è in larga parte conseguenza dei mali sopra elencati, cioè di quel male che va sotto il nome di “berlusconismo” che ha afflitto le classi dirigenti italiane nell’ultimo ventennio, sia i gruppi dirigenti politici di tutti gli schieramenti, sia i gruppi dirigenti di imprese pubbliche e private.

E’ difficile definire secondo gli schemi correnti di destra centro e sinistra, chi siano gli elettori che daranno il loro voto al Movimento cinque stelle, né è facile catalogare i parlamentari che quegli elettori eleggeranno nel nuovo Parlamento. Tenderei a distinguere Grillo dagli eletti al Parlamento, non mi sento di considerarli alla stregua di un gregge al servizio del pastore Grillo. Di una cosa però sono certo,  tutti costoro una cosa avranno in comune, il giudizio estremamente negativo della classe politica che da vent’anni siede in Parlamento. Il loro obiettivo è cacciarli tutti. Tanto che sarà assai difficile dialogare con loro, come auspicano certi dirigenti del PD. Forse qualcuno dei nuovi, di coloro che non hanno mai avuto responsabilità nel passato potranno legittimamente farlo. Non certo il vecchio gruppo dirigente, che ancora oggi, benché fuori dal Parlamento, pensa ancora di essere il Re Sole e che tutto ruoti intorno a sé. “Dialogheremo con tutti” ha detto D’Alema alla giornalista Berlinguer, ancora non si rende conto che saranno gli altri a non voler dialogare con lui.