Le Storie della Bibbia

LE STORIE DELLA BIBBIA

domenica 24 marzo 2013

Non basta una legge elettorale

24/03/2013 Consiglio la lettura di questa "opinione" che anch'io condivido.

Non basta una legge elettorale

luca ricolfi
La politica è in crisi, sentiamo ripetere. E certo lo è, a giudicare dai risultati degli ultimi vent’anni: il Paese è allo sbando, molti politici sono corrotti, non si riesce a formare un governo. Quello che forse è meno evidente è che anche i rimedi che si stanno sperimentando non sono la soluzione, ma sono parte integrante della malattia.
La politica si sta comportando come una squadra di calcio in crisi che, per superare la crisi, cercasse di vincere le partite a tavolino, o condizionare gli arbitri, o accusare gli avversari di doping, anziché allenarsi di più e meglio, impegnarsi a fondo in partita, o cambiare qualche giocatore (e magari anche l’allenatore). È paradossale, ma la politica non sembra rendersi conto che i problemi che deve affrontare sono innanzitutto di natura politica, non di altro genere. E come tali andrebbero risolti sul campo, non invocando demiurghi e agenti esterni.

E invece è proprio questo che sta succedendo. La politica non sa risolvere i propri problemi politicamente, e allora ricorre continuamente a supplenti e surrogati. C’è un problema di privilegi e di costi della politica?
Ed ecco che scatta la gara a chi si riduce di più lo stipendio: l’etica viene chiamata a sostituire la politica.
C’è un uomo politico che avvelena la competizione fra destra e sinistra ma prende un sacco di voti? Ed ecco che scattano tutte le armi improprie disponibili: leggi nuove di zecca per impedire la ricandidatura, pressioni sulla magistratura perché reinterpreti una legge esistente, che «se ben interpretata» potrebbe mettere fuori gioco il politico che non si riesce a sconfiggere sul campo (una delle due manifestazioni di ieri a Roma aveva precisamente questo scopo, mentre l’altra – in modo specularmente aberrante – aveva lo scopo di difenderlo dalla magistratura). La legge, che dovrebbe semplicemente essere rispettata da tutti, viene chiamata a risolvere un problema politico che non si è stati capaci di risolvere con armi proprie, ossia con la sola forza della politica, pur avendone tutta la possibilità: se il Pd avesse candidato Renzi il politico della discordia sarebbe fuori giuoco, e noi non staremmo ancora qui a sfogliare la margherita delle alleanze (m’ama? non m’ama? Bersani non l’ha ancora capito che Grillo non lo ama?).

Ma il caso più interessante è quello della legge elettorale. Qui non solo nella testa dei politici, ma anche in quella degli elettori, si è installata una curiosa credenza. Dato che nessuno riesce a vincere le elezioni, dato che a un mese dal voto non si sa ancora chi sarà il premier, dato che in Parlamento non esiste alcuna maggioranza in grado di sorreggere un governo, allora si è portati a credere che la colpa sia della legge elettorale. Ma è una grandiosa bestialità. Le leggi elettorali possono essere più o meno buone, più o meno adatte a un Paese, più o meno scandalose, ma da sole non possono risolvere i problemi la cui natura è essenzialmente politica.
Se per quasi mezzo secolo in Italia non c’è stata alternanza fra destra e sinistra non è dipeso dalla legge elettorale proporzionale ma da due fattori genuinamente politici: la divisione del mondo in due blocchi, la mancata evoluzione del Partito comunista. Tanto è vero che i socialdemocratici tedeschi, che le loro scelte riformiste le avevano fatte già nel 1959 a Bad Godesberg (32 anni prima del Pci), non hanno dovuto aspettare la caduta del muro di Berlino per andare al governo, e lo hanno fatto con una legge di impianto prevalentemente proporzionale. L’alternanza al governo fra destra e sinistra, o fra conservatori e progressisti, è un frutto della politica, non della legge elettorale.

Così oggi in Italia è del tutto fuorviante pensare che possa essere una nuova legge elettorale a tirarci fuori dalle secche in cui la politica si è andata a cacciare. Se le elezioni non riescono a esprimere una maggioranza e il Parlamento non riesce ad esprimere un governo è per due precise ragioni, entrambe di natura politica. La prima è che il nostro sistema politico è improvvisamente divenuto tripolare, come nel 1992-1993 (subito prima della discesa in campo di Berlusconi), quando l’Italia per una breve stagione assunse un assetto tripolare, con la Lega egemone al Nord, il Pci al centro e la Dc al Sud. E i sistemi tripolari non sono immuni al «paradosso di Condorcet»: può succedere che una maggioranza preferisca A a B, un’altra B a C, ma che vi sia anche una maggioranza che preferisce C ad A. Mettete, nell’ordine in cui volete, Bersani, Berlusconi e Grillo al posto di A, B, C, e vedrete in che bel pasticcio potremmo esserci cacciati. La seconda ragione è che Bersani e Grillo, ossia i due semi-vincitori delle elezioni, pensano solo a conquistare (o riconquistare) voti, il primo puntando sull’antiberlusconismo (un’idea veramente nuova e originale, come si addice a un «governo del cambiamento»), il secondo scommettendo sulla nascita di un governo Pd-Pdl così abominevole da consegnare il 51% (pardon: il 100%) dei consensi al Movimento Cinque Stelle.

Pensare che da un simile ginepraio possa tirarci fuori una legge elettorale è molto ingenuo. Certo, l’orrido Porcellum va cambiato, e alla svelta (io avrei anche una proposta: chiediamo a Giovanni Sartori, il nostro studioso di sistemi elettorali più illustre, di scrivere lui una legge sensata). Ma nessuna legge elettorale può produrre, di per sé, quel che solo la politica può darci, ossia un governo che abbia il consenso necessario per governare. Se tornassimo al proporzionale, cadrebbe la finzione attuale del vincitore (chi ottiene il premio di maggioranza), ma comunque dovremmo assistere ai medesimi estenuanti negoziati di oggi. Se sopprimessimo il Senato e mantenessimo l’attuale premio di maggioranza alla Camera, assisteremmo alla nascita di governi che hanno il 54% dei seggi in Parlamento e il 25% dei consensi nel Paese (tenuto conto del non voto, è questo il consenso reale di cui godono oggi Bersani-Berlusconi-Grillo). Se adottassimo il doppio turno alla francese, che tanto piace al Pd, dovremmo prepararci ad assistere al paradosso dei sistemi tripolari: il vincitore del primo turno perde al ballottaggio, perché il terzo arrivato si allea con il secondo. Spieghiamolo con due esempi: nelle regioni rosse vanno al ballottaggio Pd e Grillo, ma il Pdl escluso si vendica votando Grillo. Nelle regioni bianche vanno al ballottaggio Pdl e Grillo, ma il Pd escluso si vendica votando Grillo. Insomma, vince sempre Grillo, anche se Pd e Pdl hanno il doppio dei suoi voti.

Per questo, pur convinto che le regole del gioco vadano rinnovate, e vadano rinnovate nel senso di una maggiore efficienza – una sola Camera, meno deputati, più potere al premier, regolamenti parlamentari snelli – vedo con qualche perplessità l’attuale tentativo di Bersani di ottenere la benevolenza del Pdl con una mera intesa sulle regole. Di regole istituzionali meno paralizzanti c’è sicuramente bisogno. Di una nuova legge elettorale pure. Ma le regole servono per governare, e governare significa affrontare tutti gli altri problemi, ossia lavoro, tasse, stato sociale. Di un accordo sulle regole che lasci tutto il resto come prima, con una sinistra e una destra che si odiano, e odiandosi paralizzano qualsiasi governo, non si sente proprio il bisogno.  

mercoledì 20 marzo 2013

La scelta al Presidente Napolitano

Oggi sono iniziate le consultazioni del Presidente Napolitano in vista della formazione di un governo. Domani ci sarà l'incontro con Bersani, il quale si augura di ricevere l'incarico di formare il governo. In verità Bersani sta portando il PD in un vicolo cieco perché non riuscirà a trovare una maggioranza al Senato e forse non riuscirà nemmeno a ricevere l'incarico da Napolitano. La cosa più sensata che avrebbe dovuto fare dopo aver conosciuto il risultato delle elezioni era di dimettersi da segretario del PD, perché Bersani le elezioni le ha perse e chi perde si fa da parte.
Purtroppo la smania di successo che coglie anche le persone in apparenza miti e ragionevoli, fa perdere il ben dell' intelletto.
L'argomento che usa Bersani per pretendere l'incarico è quello che la sua coalizione ha la maggioranza della Camera e la maggioranza relativa del Senato. In verità è l'assurda legge elettorale del Porcellum che ha prodotto questo risultato, palesemente lontano dall'effettivo orientamento dei cittadini che sono andati al voto. Gli elettori hanno distribuito i loro consensi a tre coalizioni quasi equivalenti più una quarta che, seppur più piccola, è riuscita comunque a impedire il successo al centro destra di PDL-Lega. Non è possibile governare un Paese nelle condizioni drammatiche in cui siamo, con trequarti dei cittadini all'opposizione. Questo Bersani lo dovrebbe capire. Al punto in cui siamo quindi cosa farà il presidente Napolitano?
Io penso che difficilmente darà a Bersani un incarico formale, tutt'al più gli darà un incarico esplorativo. Constatato il fallimento potrà tentare un incarico per un governo d'emergenza istituzionale. Se fallisse anche questo non gli resterà che aspettare la nomina del suo successore che scioglierà le Camere.
Questo è un evento che io tenderei a escludere non per ragioni politiche o ideologiche o istituzionali, ma per una semplice ragione di convenienza dei membri del nuovo Parlamento. Bisogna ricordarsi che tutti questi nuovi parlamentari sono diventati tali con molta facilità, senza grandi sforzi né finanziari né senza svolgere nessuna faticosa campagna elettorale, e anche senza merito, stante il fatto che molti di loro non hanno mai fatto nemmeno un poco di esperienza amministrativa nei loro comuni. Ed ora si trovano a dover gestire le sorti del loro Paese. E' verosimile che si lascino mandare a casa senza neanche provare per qualche mese il " brivido" dell'essere onorevoli? Io credo di no. A dispetto delle poche prese di posizione di radicale inconciliabilità degli uni con gli altri fatte in questi giorni e dei lunghi silenzi, soprattutto dei nuovi parlamentari, alla fine troveranno il modo di restare seduti - almeno per un po' di tempo -  su quel posto, tanto ambito e da loro così facilmente conquistato; penso anche che dovranno riuscire a convincere noi elettori  di avere meritato di essere stati eletti, dimostrando nei loro comportamenti di essere  migliori  della generazione che li ha preceduti sugli scranni del Parlamento ma, per poterlo fare, non vorranno essere mandati a casa subito!

giovedì 14 marzo 2013

Papa francesco

Quando Benedetto XVI annunciò le sue dimissioni da Papa scrissi nel mio diario la seguente nota.
14 febbraio 2013
La rinuncia di Benedetto XVI
Dire di essere rimasto sorpreso è niente. Un annuncio inaspettato, ancorché con gli amici avessimo già notato come negli ultimi tempi Benedetto XVI apparisse molto affaticato e stanco.La decisione del Santo Padre, l’hanno già detto in molti, è una decisione di portata storica, non paragonabile con nessuna delle precedenti, nemmeno con quella di Celestino V. Io credo che una delle conseguenze di questa decisione sarà la perdita di quel senso di sacralità che sinora aveva rivestito la persona del Pontefice e che porterà inevitabilmente a considerare il Papa semplicemente come il vescovo di Roma, uno dei tanti vescovi della cristianità, e come tale non più il vicario di Cristo in terra, ma il successore, insieme agli altri vescovi, degli apostoli. Se si verificherà un passaggio di questo genere, per carità opinione del tutto personale della quale non saprei nemmeno quali implicanze teologiche potrebbe avere, credo che potrebbe essere molto facilitato l’ecumenismo e la ricomposizione dell’esperienza cristiana in una chiesa “unam sanctam cattolicam et apostolicam”.
Ovviamente era una nota che proseguiva con altre considerazioni un po' più serie, essendo questa frutto della mia ignoranza in materia di diritto canonico e quasi senza alcuna competenza in materia teologica.
Tuttavia mi sono ricordato di queste effimere parole dopo l'elezione, per me anch'essa sorprendente, di Papa Francesco, il quale mi ha colpito soprattutto per le prime parole rivolte ai fedeli in attesa in Piazza S.Pietro. Egli si è presentato come il vescovo di Roma ed ha attribuito al vescovo di Roma il compito di presiedere "con carità" i vescovi di tutte le altre chiese. Ha nominato il suo predecessore chiamandolo vescovo emerito. Non ha mai pronunciato la parola pontefice romano ha posto invece l'accento sul suo mandato di vescovo di Roma. Insieme alla scelta del nome che nessun papa aveva mai preferito , queste prime parole sono a mio giudizio un segno di grande novità e - come si usa dire fra chi ne sa più di me - sono parole profetiche.