Le Storie della Bibbia

LE STORIE DELLA BIBBIA

lunedì 13 maggio 2013

Analisi del voto

Articolo di Antonio Polito pubblicato sul Corriere della Sera del 10 maggio 2013

È davvero sorprendente che undici settimane dopo il più grande terremoto elettorale della storia della Repubblica, nessun organo dirigente del Pd abbia ancora fatto un’analisi del voto. Domani riparte la giostra dei nomi, dei segretari, dei reggenti, degli organigrammi. Le correnti sono in piena attività. Tutti vogliono decidere chi guiderà il partito, ma per fare che cosa nessuno lo sa. E finché non si studierà cosa è successo nelle urne alla sinistra italiana, è impossibile saperlo. La prima cosa che bisognerebbe discutere è questa: la sinistra italiana ha ottenuto il suo risultato peggiore proprio quando ha creduto di poter fare da sola. La coalizione di Bersani ha infatti raggiunto una percentuale di voti alla Camera (il 29,5%) inferiore perfino alla tanto vituperata macchina da guerra di Occhetto, che ottenne il 32,75 nel 1994, all’alba della Seconda Repubblica. Il solo Pd di Veltroni ebbe cinque anni fa un risultato di gran lunga migliore di Bersani e Vendola messi insieme. Perfino Togliatti e Nenni, nella sconfitta storica del 1948, fecero un po’ meglio sfiorando il 31%. A occhio e croce si direbbe che il primo cruccio del Pd dovrebbe essere quello di ricostruire un sistema di alleanze che gli consenta di uscire fuori dal recinto elettorale della sinistra, ormai dimostratosi troppo angusto per poter mai vincere le elezioni. D’altra parte, la coalizione con Vendola in Parlamento già non esiste più, ed è dunque inservibile come progetto politico su cui ricostruire. La seconda osservazione andrebbe fatta sulla distribuzione geografica del voto per la sinistra: è sostanzialmente uguale a quella che era subito dopo il fascismo, nel 1948, e anche subito prima, nel 1919: al di fuori del quadrilatero delle regioni rosse, la sinistra è minoritaria ovunque (cito elaborazioni del Cise di D’ALimonte). Ma, rispetto a cinque anni fa, il deterioramento è stato minore nel Nord-Est, dove il Pd ha perso «solo» il 4% dei suoi voti, ampio al Nord Ovest (meno 8,3%), amplissimo al Sud (meno 9,5%), e più ampio che mai nelle regioni rosse (meno 10%). Questo vuol dire che la sinistra deve considerare a rischio perfino ciò che finora dava per scontato, perché è emerso un concorrente più in grado dell’avversario tradizionale di penetrare nelle sue roccaforti. Il Movimento s Stelle è stato infatti il primo partito in tutte le provincia delle Marche, in una provincia dell’Emilia Romagna e in una della Toscana (è il primo partito in 50 provincie contro le 40 del Pdl). Tutto ciò nonostante che al vertice democratico stavolta ci fossero gli «emiliani». La lezione da trarre è che la vera novità del competitore grillino non sta solo nel fatto di avere un messaggio più radicale, che si presume più «di sinistra» e che più d’uno nel Pd vorrebbe ora imitare; ma ancor di più sta nel fatto che è una forza più trasversale, capace cioè di attrarre elettori di destra oltre che di sinistra, qualità che al Pd invece manca. Dei quasi nove milioni di voti andati al M5S (cito elaborazioni dell’Ipsos di Pagnoncelli), il 30% viene da chi ha votato a sinistra nel 2008, ma il 31% viene da chi votò a destra, per Berlusconi e per Bossi; più un altro 36% che viene dal non voto e dal nuovo voto. Sarebbe bastato aver studiato questi dati per evitare qualche brutta figura e capire che per Grillo era impossibile dare via libera a un governo Bersani: i 5 Stelle non possono allearsi in Parlamento con nessuno, perché qualsiasi alleanza scontenterebbe un terzo del loro elettorato (è questo, tra l’altro, il vero punto debole del Movimento sulla lunga distanza). Il partito di Grillo ha insomma raggiunto quell’interclassismo e quel trasversalismo sociale che erano l’ambizione alla base della nascita del Pd: ottiene più voti tra gli imprenditori e i dirigenti (25% MSS; 23% Pd) e tra i lavoratori autonomi (39% M5S; solo 15% il Pd); ma anche tra gli operai (29% MSS contro il 20% del Pd, che qui è battuto anche dal Pdl al 24%) e tra i disoccupati (33% al MsS e il 23% al Pd). L’unica categoria sociale in cui il Pd svetta rispetto ai concorrenti è quella dei pensionati: vi ottiene il 37% dei voti, contro il 25% del Pdl e un magrissimo 11% di Grillo. Non era dunque vero che si sarebbe intercettato meglio lo stato d’animo del paese spostandosi più a sinistra e identificandosi di più con la Cgil (sindacato nel quale, d’altra parte, i pensionati sono la maggioranza degli iscritti). L’ultima lezione che il Pd potrebbe trarre da un’analisi del voto, se e quando la vorrà fare, è l’impressionante invecchiamento anagrafico del suo elettorato: la metà è composta da persone al di sopra dei 55 anni (e tra quelle oltre i 65% la percentuale è del 32%). Gli ultra-cinquantacinquenni sono invece solo il 19% dell’elettorato grillino; e tra i giovani che hanno votato per la prima volta il Pd raccoglie l’8% dei suoi voti, contro il 13% del M5S. Infatti alla sinistra è andata molto peggio alla Camera, dove votano i diciottenni, che al Senato: una differenza del 2,1%. Il che obbligherebbe a una revisione complessiva dei linguaggi, delle forme, dello stile della politica, dai comizi all’ossessione televisiva fino a un uso così ingenuamente ludico del web da sembrare provocatorio. Alleanze, proposta, messaggio: prima di darsi un nuovo segretario il Pd dovrebbe decidere che fare. E quel che va fatto sta scritto nei dati elettorali. Bisognerebbe cominciare a leggerli.

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